La Commissione europea ha finalmente pubblicato lo schema di regolamento di attuazione del “Food Information Regulation” che riguarda l’indicazione in etichetta dell’origine o provenienza dell’ingrediente primario (>50%), laddove diversa dal “Made in …” dichiarato. (1) Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Il regolamento UE 1169/11 (vedi l’ebook “L’etichetta“) ha introdotto l’obbligo di indicare l’origine o provenienza dell’ingrediente primario, quando essa non coincida con l’origine del prodotto (vale a dire, il Paese di sua ultima trasformazione sostanziale), e quest’ultima venga dichiarata. O anche solo implicitamente suggerita, facendo ricorso a nomi suggestivi o a simboli (come il tricolore, nei numerosi esempi di “Italian sounding” che affollano gli scaffali dei supermercati del pianeta).
La Commissione però è andata oltre i limiti della deroga a essa conferita dal legislatore europeo, introducendo una serie di deroghe. In uno schema di regolamento – di attuazione della norma di cui all’articolo 26, comma 2, reg. UE 1169/11 – sottoposto a consultazione pubblica entro l’1 febbraio 2018.
L’obbligo di indicare la diversa origine dell’ingrediente primario, di conseguenza, non si applicherà ai seguenti casi:
– indicazione di origine del prodotto suggerita in un marchio registrato (es. Bella Italia),
– indicazione di origine contenuta in una designazione geografica riconosciuta come DOP, IGP, STG. Ovvero nell’ambito dell’Organizzazione Comune dei Mercati (OCM), dei liquori, bevande spiritose e vini aromatizzati con denominazioni geografiche protette, o di indicazioni geografiche comunque riconosciute nell’ambito di accordi internazionali.
L’esenzione dei marchi registrati – fortemente voluta dall’industria alimentare europea, e da quella italiana – consentirà di non comunicare la diversa origine della materia prima prevalente (es. carne suina tedesca in un prosciutto italiano). Poiché tuttavia tale esenzione non è limitata ai marchi storici ma si estende a quelli che potranno venire registrati in epoca successiva, essa di fatto legittima ogni attuale e futura iniziativa di “Italian sounding” realizzata da qualsivoglia operatore. Con il concreto rischio di svilire i marchi di quelle imprese – dell’industria e della GDO – che nel corso dei decenni hanno investito sull’integrazione della filiera.
La deroga a favore delle IGP comporta invece il paradosso di ricevere minori informazioni sulle Indicazioni Geografiche Protette rispetto agli alimenti privi di riferimenti geografici. Di conseguenza, continueremo a non leggere in etichetta l’origine (in genere brasiliana) della carne impiegata nella Bresaola della Valtellina IGP, mentre avremo modo di conoscere quella della carne salada trentina o della mocetta valdostana che non si fregiano del riconoscimento europeo.
I decreti italiani sull’origine di latte (nei prodotti lattiero-caseari), grano e semola nella pasta, riso e pomodoro nelle relative conserve perderanno invece efficacia, a partire dalla data di applicazione del nuovo regolamento europeo, attesa per il 1° aprile 2020.
Un odioso pesce d’aprile sia per gli agricoltori e i consumatori-elettori che hanno creduto alle false promesse dei ministri firmatari e si sono illusi sui proclama di maggiore trasparenza in etichetta che hanno accompagnato la presentazione di tali decreti, sia per le industrie costrette a modificare decine di migliaia di etichette in pochi mesi, per inseguire normative a “obsolescenza programmata”.
Per maggiori dettagli sullo schema di regolamento della Commissione, si veda questo articolo. Per la casistica di “Italian sounding”, “Made in …” e regole in divenire, si veda questo articolo.
Note
(1) Reg. UE 1169/11, articolo 26, comma 2
Dario Dongo, FARE (info@fare.email)
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Avvocato, giornalista. Twitter: @ItalyFoodTrade
Per la discussione, riporto l’interpretazione dell’Informatore Agrario sulla decisione della Commissione:
“La questione è abbastanza aggrovigliata perché l’atto di esecuzione si fonda sul principio che se si scrive o si evoca l’origine di un prodotto alimentare, e se l’ingrediente primario di quel prodotto è di provenienza diversa da quella evocata, questa informazione deve essere indicata in etichetta. L’obiettivo è garantire che le informazioni sull’origine di un alimento non ingannino il consumatore.
In sostanza si tratta principalmente di contrastare le false indicazioni, tipo italian sounding. Ma sembra di capire che, in linea teorica, se il produttore di pasta “xyz” sulla confezione non fa riferimenti geografici di alcun tipo, né riporta informazioni o evocazioni dell’origine dell’alimento, le regole UE non lo obbligano a indicare il luogo di provenienza dello stesso alimento o del suo ingrediente primario.”
Quindi capisco che se non c’è volontà di ingannare il consumatore con indicazioni fuorvianti, cade l’obbligo dell’indicazione dell’origine della principale materia prima impiegata.
Mentre per alimenti che richiamano un origine in qualsiasi modo, fatto salvo per quelli già protetti, questo deve essere dichiarato.
Il vero problema a mio parere, non è tanto la decisione della Commissione, ma la definizione di “ultima trasformazione sostanziale” che attribuisce erroneamente la patente di paese d’origine ad un prodotto solo trasformato in quel paese e non all’origine della materia prima impiegata per realizzarlo.
Questa falsa patente è la causa principale delle problematiche ed inganni riguardanti la paternità di molti alimenti solo trasformati ed a volte addirittura solamente confezionati in Italia (succhi di frutta, conserve di pomodoro), per essere falsamente identificati come italiani.
Ci penseranno i consumatori a sistemare questo paradosso, cercando prodotti dove l’origine del componente primario sia specificata. Bisogna però diffondere al massimo la conoscenza di questo inghippo, in modo che il consumatore sappia che deve cercare tale specifica.
Da consumatore attento smetterei di comprare i prodotti Dop e igp se non indicano in etichetta l’origine della materi prima.Sembra un paradosso,ma ad essere paradossale è il regolamento di attuazione partorito dalla CE la cui gravidanza è ovviamente opera dei lobbisti.
Aspettiamoci che Nestlè, o chinque altri, acquistino un marchio registrato in Italia e lo produca con materia prima proveniente dalla terra di mezzo.La delocalizzazione da tempo in atto nell’industria tessile e meccanica ha adesso campo libero anche nella produzione di cibo.
Leggere sempre le etichette e lasciare sullo scaffale tutti i prodotti carenti di informazioni utili a difendere le maestranze e le produzioni agricole autoctone è l’unica ed efficacissima arma a disposizone del consumatore informato e attento.
Ma i prodotti Dop devono seguire precise regole sull’origine della materia prima .
Vero,le IGP invece sono libere di approvvigionarsi altrove come è il caso della bresaola della Valtellina.
Salve volevo domandare se la pasta prodotta da barilla negli stabilimenti all’estero come turchia o messico è da considerarsi italiana?
Non può riportare la scritta Made in Italy, anche se usa la stessa miscela di semola che impiega in Italia
Dopo queste osservazioni, anche se personalmente difendo il “savoir faire Italiano nella scelta delle migliori materie prime e nella tecnologia di trasformazione” più dell’origine della materia prima: dov’era Martina, o chi per esso , durante la stesura? chi va a difendere l’interesse dell’Italia? Coldiretti ,che poi usa queste osservazioni per sparare a zero?