Il rispetto per l’ambiente e la sostenibilità sono temi che stanno sempre più a cuore a tutti noi. Secondo l’ultimo Rapporto Coop, italianità e sostenibilità sono fra le caratteristiche più importanti per gli italiani, quando fanno la spesa (leggi approfondimento). E questa tendenza viene cavalcata dai responsabili del marketing, per cui sulle confezioni dei prodotti fioriscono sempre nuove dichiarazioni “verdi”: secondo l’ultima edizione dell’Osservatorio immagino un prodotto su quattro riporta claim correlati alla sostenibilità ambientale.
Purtroppo, queste dichiarazioni non sempre rispecchiano un’effettiva superiorità dei prodotti, dal punto di vista dell’impatto ambientale. Questo accade perché la sostenibilità dipende da un gran numero di aspetti – le materie prime utilizzate, la loro provenienza, i processi produttivi, il tipo di energia utilizzato, il trasporto, gli imballaggi ecc. Inoltre, è vero che la Tassonomia Europea (Regolamento Ue 2020-852) delle attività economiche eco-compatibili, classifica le attività in base alla loro sostenibilità, e quindi esistono dei criteri tecnici per definire quali processi siano sostenibili, ma questa classificazione non è facilmente trasferibile su prodotti complessi come gli alimenti. Al momento in Italia, nei casi migliori, le dichiarazioni di sostenibilità sui prodotti sono correlate a disciplinari specifici adottati dalle singole aziende e pubblicati sui siti internet (come accade per esempio per Barilla o Granarolo).
Cosa si sta facendo per arginare questo problema? Ne abbiamo parlato con l’avvocato Bianca Bonini dello studio Avvocati per l’Impresa di Torino.
“La correttezza e la veridicità della comunicazione rivestono un ruolo importante per i consumatori e anche per le imprese. Proprio con l’obiettivo di tutelare entrambi questi interessi la Commissione europea, nel 2021, ha emanato una Comunicazione sugli orientamenti l’interpretazione e l’applicazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali, che comprende anche una sezione dedicata alla sostenibilità e alle “asserzioni ambientali”. Si tratta di dichiarazioni che suggeriscono (o lasciano intendere) che un prodotto o un servizio abbia un impatto positivo o sia privo di impatto sull’ambiente o sia meno dannoso rispetto a prodotti o servizi concorrenti. Questa comunicazione prende anche lo spunto da un’indagine effettuata su diversi siti web dalla stessa Commissione. Dal lavoro emerge la presenza di dichiarazioni ecologiche vaghe, esagerate, false o ingannevoli su quasi la metà dei siti analizzati. Questa pratica viene definita “greenwashing”, cioè appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di una immagine “verde”.
“Secondo la Commissione – continua Bonini – le dichiarazioni ecologiche devono essere veritiere, dimostrate o dimostrabili, nonché presentate in modo chiaro, specifico e inequivocabile e, inoltre, non devono essere ingannevoli per i consumatori, che devono potersi fidare. Come tutte le forme di comunicazione, anche le asserzioni ambientali sono da ritenersi ingannevoli se vaghe o comunque generiche, senza un’adeguata dimostrazione del beneficio ambientale e senza l’indicazione puntuale delle caratteristiche che rendono il prodotto o servizio verde. Ad es. a emissioni zero, senza inquinanti, biodegradabile, verde, ecc.”
Sempre nella stessa Comunicazione, la Commissione sottolinea la rilevanza non solo delle affermazioni in quanto tali, ma anche di immagini, figure, simboli, suoni, colori, ecc. che suggeriscono un maggior rispetto dell’ambiente, quando questo non sia vero e dimostrato, o dimostrabile. Non è corretto quindi utilizzare immagini quali ad es. foglie o alberi o il colore verde, che implicitamente suggeriscono una particolare attenzione alla sostenibilità, se questa non è veritiera e dimostrabile (dimostrazione il cui onere viene lasciato in carico al professionista).
“Tale Comunicazione non ha però efficacia giuridica – continua Bonini – ma è un mero documento di orientamento. Un passo avanti è stato fatto dall’Ombudsman danese, Autorità analoga alla nostra Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), che nel 2021 ha pubblicato una Guida rapida sui claim ambientali”. La guida, basata sulla normativa europea e nazionale e sulla giurisprudenza, introduce un’interessante novità con riferimento ai claim cosiddetti generici quali ad es. sostenibile, green, ecc. Nello specifico viene precisato che: Se vengono utilizzate tali affermazioni nel vostro marketing senza indicare anche perché l’azienda o i prodotti sono, ad esempio, rispettosi del clima o dell’ambiente, dovete essere in grado di comprovare l’affermazione generale sulla base di un’analisi del ciclo di vita dei vostri prodotti.”
Il ciclo di vita dei prodotti o Life cycle assesment (LCA) è un metodo che possiamo tradurre come “analisi del ciclo di vita”, oggettivo e certificato, che stima i carichi energetici e gli impatti ambientali di un certo prodotto o servizio, tenendo conto dell’intero “ciclo vitale”, dalla produzione allo smaltimento. Ora quindi sembrerebbe che in Danimarca, per le dichiarazioni ambientali “generiche senza una spiegazione”, sia necessaria un’analisi LCA, certificata da un ente terzo.
Abbiamo chiesto un commento a Fabio Iraldo docente di Managment alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa ed esperto del settore.
“L’Ombudsman danese ha assunto una decisione che senz’altro eserciterà molta pressione sulle aziende che operano in quel mercato nazionale – spiega Iraldo – ma influenzerà anche le autorità garanti che operano negli altri Paesi Membri, e a cascata le aziende su cui esse hanno potere di intervento. Si tratta di un deciso e inequivocabile rafforzamento di un principio che già molte autorità avevano adottato come suggerimento generale o addirittura come prescrizione rivolta alle aziende oggetto di ricorso per greenwashing. Lo stesso garante italiano, in molte posizioni pubbliche e decisioni formali, ha più volte indicato alle aziende la via della LCA come unico robusto e credibile supporto (in grado di fornire dati e informazioni incontestabili) ai claim ambientali riportatati prodotti.”
“Il metodo LCA – continua l’esperto – anche nella sua versione di Environmental Footprint comunitaria (Pef = Product environmental footprint), garantisce rigore metodologico e uniformità nell’applicazione di regole di calcolo dell’impronta ambientale. Proprio in ragione dei princìpi e degli standard condivisi su cui è fondata, può dar luogo anche a forme di validazione dei risultati e certificazione di parte terza indipendente. Ciò produce dati e informazioni quantitative, sotto forma di indicatori di impatto ambientale, che costituiscono l’ossatura di una comunicazione credibile nei confronti del mercato e di tutte le realtà interessate. La fiducia dei consumatori nei confronti delle aziende che utilizzano dichiarazioni ambientali si deve basare su due cardini: la capacità di fornire al consumatore informazioni scientificamente fondate e l’avallo da parte di un soggetto terzo indipendente e autorevole. Queste due condizioni sono fornite dall’applicazione del metodo LCA e dall’utilizzo degli indicatori da esso risultanti come input per il proprio marketing.”
Si potrebbe applicare anche in Italia?
“Innanzitutto – fa notare Iraldo – va sottolineato che nelle indicazioni provenienti dall’Ombudsman danese, così come in linea di tendenza le prospettive normative della Commissione Europea, il ricorso alla LCA è un obbligo solo per coloro che decidono di utilizzare claim verdi, e non un’imposizione generalizzata. Questo forse potrebbe essere un disincentivo per le imprese italiane, più piccole e spesso non dotate di risorse e di competenze adeguate. Bisogna tuttavia notare che l’Italia è l’unico Paese Membro della UE che ha recepito la metodologia della Product environmental footprint, dando vita a uno schema nazionale per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale, denominato “Made Green in Italy”. Quindi pur non essendoci l’obbligo come in Danimarca, c’è già una concreta, ufficiale e ben definita opportunità per potervi rispondere.”
L’utilizzo della certificazione LCA sarebbe certamente utile per fare un po’ di chiarezza, ma non tutti ritengono che sarebbe sufficiente.
“Se è ottimo per classificare il processo di produzione dei bulloni o della carta che usiamo per la stampante – fa notare Roberto Pinton, consulente del settore alimentare – il metodo LCA non è così efficace quando abbiamo a che fare con qualcosa di vivo. Se si ragiona di agricoltura e allevamento, ci sono aspetti del tutto fondamentali che lo standard LCA non considera affatto, per esempio la qualità del suolo (che è un organismo complesso in cui coesistono materia inorganica, sostanza organica, piante, microrganismi, insetti…), la biodiversità (la ricchezza e l’abbondanza di specie vegetali e animali), l’impatto dei pesticidi su acque superficiali e profonde, sull’aria, sulla vita vegetale e animale, il benessere degli animali, ma anche il livello dello sviluppo rurale. Studi LCA che non tengano in considerazione aspetti fondamentali come l’accumulo di pesticidi nel suolo o la perdita di biodiversità portano a conclusioni ingannevoli: quando si parla di processi ecologici, non si può trascurare l’impatto sul suolo, sull’acqua, sulle caratteristiche dell’ecosistema locale.”
“La metodologia LCA – continua Pinton –andrebbe quindi integrata con altri elementi di valutazione ambientale, in modo da restituire una valutazione equilibrata e veritiera. Qualcosa del genere si sta testando in Francia con l’Eco-Score un meccanismo di valutazione dell’impatto ambientale con una rappresentazione grafica simile al Nutri-Score, e più recentemente con il “Planet Score” che al semaforo dell’Eco-Score aggiunge le valutazioni sull’uso di pesticidi, sulla biodiversità, sull’impatto climatico e sul benessere animale. Il modello, promosso da una ventina di importanti organizzazioni nazionali, è in fase di test da parte di circa 180 imprese, in maggioranza di medie o piccole dimensioni.” A questo punto non possiamo che aspettare un aggiornamento della normativa comunitaria. Intanto, per verificare l’affidabilità delle dichiarazioni che troviamo sui prodotti alimentari, possiamo consultare i siti internet delle aziende, cercando riferimenti e prove di quanto dichiarato.
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Avvocato, giornalista. Twitter: @ItalyFoodTrade
Un problema complesso, al quale il consumatore, anche ben intenzionato e informato, non sa come affrontarlo.
Esemplare l’iniziativa danese, ma molto lontana dalla nostra mentalità. Ricordo solo i decenni necessari alla riduzione e sostituzione dei sacchetti di plastica per la spesa (ne ho gettato uno del 1984 che, dato lo spessore con cui una notissima catena di supermercati li fabbricava, ha resistito abbastanza bene fino al 2021).
Potrei aggiungere altri esempi, ma date le festività in corso preferisco evitare.
Ormai sono talmente tante le immagini applicate sui prodotti, dal coniglietto all’albero alle stelle ai semafori a foglie fiori frutti gattini criceti… che il consumatore ormai neppure più le guarda.
Di fatto è come se tutte le parole di un testo fossero in grassetto, sottolineate, in rosso, col fondo fluorescente… semplicemente quel testo verrebbe ignorato in un microsecondo.
Certo il legislatore potrebbe darci un taglio facilmente, vietando TUTTO ciò che riporta dati o claim non dimostrabili SCIENTIFICAMENTE, ma è pura utopia in un paese cHE permette il commercio i prodotti omeopatici
Non sottovaluti però di considerare che l’effetto di un farmaco è, in parte, dovuta a fattori non rilevabili con il metodo scientifico. Questa parte è variabile da persona a persona.
Effetto nocebo… la nostra mente partorisce i mostri che ci divorano.
Ma il legislatore non dovrebbe improvvisarsi psicologo, o rincorrere le fisime dei complottisti, altrimenti partorirebbe aberrazioni come la legge europea sugli OGM.