Il ministro Gian Marco Centinaio esulta per l’approvazione al Senato dell’emendamento al decreto legge Semplificazioni che prevede l’obbligo di etichettatura di origine per tutti i prodotti alimentari. L’emendamento, dice il ministro, dà “più tutele per i produttori onesti e i consumatori che ora potranno scegliere in totale trasparenza. Niente più informazioni ingannevoli né falsi sulle nostre tavole”. Dichiarazioni dello stesso tono sono state fatte dai protagonisti del settore. Coldiretti, che ha una certa conoscenza della materia, scrive con soddisfazione che “Arriva l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti per valorizzare la produzione nazionale e consentire scelte di acquisto consapevoli ai consumatori contro gli inganni dei prodotti stranieri spacciati per Made in Italy. La norma consente di adeguare ed estendere a tutti i prodotti alimentari l’etichettatura obbligatoria del luogo di provenienza geografica degli alimenti ponendo fine ad un lungo e faticoso contenzioso aperto con l’Unione europea oltre 15 anni fa”. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini parla di una “grande vittoria”. Leggendo queste parole la gente può solo pensare che l’Italia ha deciso di rendere obbligatoria l’indicazione dei ingredienti dei prodotti alimentari sull’etichetta. Tutto bene quindi? Non proprio.
La notizia ha creato un certo scalpore in una delle più autorevoli chat di Linkedin nell’ambito alimentare (Etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari promossa e coordinata da Alfredo Clerici). Gli assidui frequentatori si mostrano increduli di fronte a tanta superficialità e sbigottiti di fronte all’ennesima “favola” rilanciata con euforia dalle istituzioni e dalle lobby. Nel comunicato di Coldiretti tra un momento di esultanza e uno di soddisfazione, si fa riferimento a un “iter parlamentare che siamo certi troverà un sostegno bipartisan2. Dietro questa frase, c’è una verità scomoda che rivela quanto sia fragile e fantastica la narrazione. Per capire bisogna fare un piccolo passo indietro.
Il testo dell’emendamento approvato al Senato recita così: “il Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo, in collaborazione con l’istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (Ismea), assicura la realizzazione di appositi studi diretti a individuare la presenza di un nesso comprovato tra talune qualità degli alimenti e la relativa origine o provenienza nonché per valutare in quale misura sia percepita come significativa l’indicazione relativa al luogo di provenienza e quando la sua omissione sia riconosciuta ingannevole” (e qui siamo nell’ambito delle indicazioni geografiche protette). In altre parole, l’Ismea (un ente pubblico economico istituito con l’accorpamento di diversi enti ministeriali), dovrà promuovere studi che dimostrino una stretta relazione tra l’origine nazionale e le qualità dei prodotti, sia effettive che percepite dai consumatori.
Questa premessa vuol dire che gli studi dovranno evitare di sconfinare nel campo delle denominazioni e delle indicazioni d’origine protette (DOP e IGP), e dovranno individuare elementi distintivi tra prodotti già codificati da norme europee. Un compito che possiamo definire impegnativo visto che le norme UE che disciplinano l’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli, stabiliscono già le caratteristiche di legge per numerosi ingredienti. Ovunque sia prodotto, l’olio di oliva extravergine ha un’acidità libera espressa in acido oleico al massimo di 0,8 g per 100 g e anche le altre caratteristiche sono precisate dalla normativa, il latte deve presentare determinati tenori di grasso e proteine, una mela di categoria Extra ha le stesse caratteristiche merceologiche di legge ovunque sia raccolta, per non dire dello zucchero, che è saccarosio puro, cioè una molecola identica non solo in tutta la UE, ma in tutto il mondo.
Ma prima di arrivare a questo passaggio, l’iter parlamentare prevede che l’emendamento approvato nella Commissione, debba essere seguito da un decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo, di concerto con quello della Salute e quello dello Sviluppo economico, previa intesa in sede di Conferenza Stato Regioni e acquisiti i pareri delle competenti Commissioni parlamentari, per definire i casi in cui l’indicazione del luogo di provenienza sarà obbligatoria. Una procedura che non potrà concludersi certamente dall’oggi al domani (le Commissioni dovranno necessariamente ascoltare le diverse parti in causa, organizzazioni dei consumatori, degli agricoltori, degli artigiani e degli industriali alimentari).
Quando tutta questa fase termina “I risultati delle consultazioni effettuate e degli studi eseguiti sono resi pubblici e trasmessi alla Commissione europea, ai sensi dell’articolo 45 del regolamento (UE) n. 1169/2011”. Questa seconda fase si presenta tutt’altro che semplice, perché lo Stato membro che ritiene necessario adottare nuova normativa in materia di informazioni sugli alimenti, può adottarla solo tre mesi dopo aver notificato la sua intenzione sia alla Commissione (che deve consultare il Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali) sia agli altri Stati membri. Solo una volta ottenuto il parere positivo della Commissione, che terrà conto di eventuali pareri contrari e osservazioni di qualche Stato membro, la decisione può diventare operativa. Insomma l’iter parlamentare prima e i passaggi comunitari dopo, rappresentano una sequenza non solo lunga, ma anche molto complessa e molto difficile da superare. Qualche Paese potrebbe eccepire che dal 1 aprile 2020 si applicherà già comunque il regolamento europeo n. 775/2018 sull’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente primario degli alimenti (che peraltro, come già visto su queste pagine, autorizza anche indicazioni abbastanza generiche come «UE», «non UE» o «UE e non UE»). Forte di questo elemento qualcuno potrebbe anche eccepire che l’enfasi sull’origine di tutti gli ingredienti, potrebbe spingere l’industria alimentare italiana a rifornirsi di sola materia prima nazionale, il che collide con le regole del libero mercato.
L’Unione Europea ha più volte sottolineato l’illegittimità di qualsiasi norma nazionale che, al di fuori delle tassative ipotesi previste dai regolamenti sulla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari (cioè dei prodotti DOP e IGP), introduca segni identificativi della sola origine territoriale che prescindano da una documentata rilevabilità di particolari qualità o caratteristiche del prodotto, inteso nella sua materialità. La semplice origine territoriale dei prodotti non è ritenuta una connotazione spendibile nel senso della “qualità”. Se le caratteristiche di un prodotto sono dovute all’ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali e umani, si può ben richiedere la protezione comunitaria della denominazione dell’origine (la DOP), che però dev’essere affiancata da precisi standard di produzione, trasformazione ed elaborazione e da un regime di controlli che garantisca la conformità. Il che, tutto sommato, ha senso: ci sono prodotti italiani di assoluta eccellenza e prodotti italiani meno eccellenti: di per sé la garanzia dell’origine garantisce… l’origine, non necessariamente la qualità, che è un concetto ben più ampio.
Senza voler essere scortesi, l’esultanza di Centinaio, di Coldiretti e di altri che si sono accodati, si può paragonare a quella di uno studente liceale desideroso di frequentare la facoltà di medicina che, superato il test di ingresso è talmente felice che non considera i sei anni di studio da superare. Tutte queste cose sono difficili da spiegare ai cittadini, è molto più semplice ed efficace fare credere alla gente che l’etichetta con l’indicazione di origine di tutti gli ingredienti è dietro l’angolo e che l’Italia ha vinto ancora. Dimenticavo un’altra cosa importante, i soliti esperti che discutono delle favole che molti politici e non solo raccontano quando si parla del settore alimentare, sono preoccupati, perché riportare sull’etichetta l’origine di tutti gli ingredienti è un’operazione molto, molto difficile (diciamo praticamente impossibile per la maggior parte degli alimenti processati).
I soliti esperti che conoscono bene il settore ritengono che indicare l’origine di tutti gli ingredienti (compreso additivi, aromi, condimenti ..) metterebbe in ginocchio gli operatori di minori dimensioni. Mentre la grande industria tende a organizzare proprie filiere di fornitura, conoscendo quindi a priori l’origine di gran parte degli ingredienti, le industrie minori e le imprese artigianali si vedrebbero costrette a ristampare le confezioni a seconda delle fluttuazioni dell’offerta sul mercato, magari di un ingrediente più che secondario. Son proprio la molteplicità e la variabilità delle fonti di approvvigionamento ad aver indotto l’Unione europea ad accontentarsi di riportare sulle etichette le indicazioni generiche (UE, non UE, o UE e non UE) riferite solo all’ingrediente principale (che vedremo sulle etichette tra non più di 14 mesi) lasciando liberi gli operatori di adottare un maggior dettaglio, in funzione del proprio livello organizzativo. Va detto, infine, che con tutta probabilità l’iter della disposizione nazionale si concluderà successivamente all’applicazione del regolamento europeo n. 775/2018: il carattere di “rivoluzione”, ammesso che il provvedimento non si incagli a Bruxelles, sarà quindi un po’ annacquato.
Bianca Crivello e Sara Rossi
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@renzo:
Non è questione di nascondere le informazioni, è questione di non fare impazzire le piccole e medie imprese o aumentare i costi per la stampa di nuove etichette e confezioni (che inevitabilmente ricadrebbero sui prezzi al consumo) perchè magari le gelate hanno dimezzato la raccolta di mele, la siccità ha azzerato le quantità di fagioli, l’influenza aviaria ha imposto la chiusura degli allevamenti di tacchini, costrigendole a rifornirsi da origini diverse da quelle inizialmente previste.
Più ingredienti ci sono in un prodotto, più sono le variabili, e le possibilità che un ingrediente che contavi di acquistare da una determinata origine non sia disponibile.
Rifare un’etichetta non vuol dire solo costi di stampa: bisogna anche rifare le pellicole, rivolgedosi al grafico; vuol dire spreco di tempo: non è che i grafici e le tipografie stian lì a girarsi i pollici, pronti a scattare sull’attenti e a stampare subito quello che serve a me.
Basterebbe prevedere l’obbligo di rendere disponibili le informazioni d’origine su un sito internet con la semplice indicazione del lotto: è sempre un lavoro in più, ma almeno non si dovrebbe buttare al macero confezioni altrimenti perfette realizzate sulla base delle informazioni al momento disponibili.
Dover buttar via etichette e astucci perchè cambia l’origine di un ingrediente minore su sette o otto è un insulto anche dal punto di vista ecologico (no, non posso gestire un magazzino di confezioni che -solo forse- potranno venir buone l’anno prossimo, salvo che l’anno prossimo non mi cambi un’altra origine: anche i metri quadri di magazzino mi costano)
Centinaio sulle orme di Martina e Coldiretti, a caccia di voti tra gli Agricoli ignoranti. Prima di parlare a vanvera e di proporre cose improponibili o difficilissime da applicare dovrebbero sentire tutti gli attori della filiera e confrontarsi anche con la legislazione attuale, nazionale ed europea. Dovrebbero inoltre concentrarsi su ciò che veramente serve alla filiera agro-alimentare, dal campo al consumo, per competere e non per confinarsi in decisioni autarchiche poco o nulla efficaci che alla lunga procurano solo danno e invece di sviluppare i settori li confinano in vicoli ciechi , come ad esempio quello dell’olio italiano (Di Qualità ?) che resta invenduto.
Che smettano di raccontare le favole del pomodoro cinese nella passata italiana e del latte in polvere ricostituito, che non esiste più ed è solo un assurdo economico ! La filiera ha bisogno di idee per essere migliorata, resa aderente alla realtà, ed anche per poter usufruire a pieno titolo dei fondi europei senza furbizie che poi vengono a galla e creano solo danni irreparabili, economici e di immagine
Non ho capito una cosa. Se un produttore o un distributore di olio (o arance, o latte, o formaggio, o farina, etc) volesse scrivere sulla confezione che l’origine del prodotto e’, mettiamo, la Sicilia, lo puo’ fare?
Infatti e’ certamente volonta’ di alcuni consumatori – speriamo in numero crescente – di acquistare prodotti di una certa zona o regione, a prescindere da considerazioni organolettiche, per motivi insindacabili.
Ripeto: scrivere l’origine di un prodotto e’ giustamente possibile, o e’ incomprensibilmente vietato?
Prima di una direttiva europea armonizzata, oppure un decreto legge anticipatore ma critico, questa dell’indicazione volontaria della zona d’origine è la vera soluzione, semplice ed efficace per ogni produttore avveduto ed il linea col sentimento dei consumatori, che aggiunge anche valore commerciale ai prodotti locali.
La possibilità di indicare un’origine più dettagliata di quella nazionale ( per esempio una regionale, provinciale, di un comune o di una località) è estremamente dubbia e potenzialmente a rischio per l’operatore, salvo che non sia già prevista come obbligo o facoltà (esempio: miele, latte, ortofrutta); in linea di massima l’indicazione è riservata a prodotti disciplinato da DOP o IGP. Se qualifico come “siciliano” o “toscano” un olio extra vergine non DOP/IGP mi sanzionano, anche se l’origine dichiarata è del tutto veritiera.
Naturalmente se si pretende di qualificare con lo stesso appellativo protetto da un DOP o IGP il proprio prodotto non è certamente consentito, ma se indico la mia zona di produzione ovviamente non protetta da una certificazione terza, quale normativa vigente me lo impedisce?
Esempio olio e vino: zona di unica produzione le colline di Palermo/Catania/Rieti/Perugia/Genova/Imperia/Riva del Garda/Varese, ecc..
Lo impedisce proprio la normativa in materia di indicazioni geografiche. Semplificando (la questione richiederebbe più spazio) si potrebbe far riferimento (anche) a un origine in presenza di un marchio collettivo, che però non potrebbe limitarsi a garantire l’origine, ma dovrebbe anche garantire il rispetto di un disciplinare di produzione, il che è del tutto sensato: a caratterizzare un prodotto dev’essere uno standard qualitativo, non solo l’origine territoriale. È serve che qualcuno verifichi è certifichi la conformità allo standard. Quindi niente “vino rosso veronese” generico, niente “prosciutto crudo piacentino” generico né “olio extra vergine d’oliva dell’Appennino” che non siano DOP/IGP. SÌ, invece a “carote del Trentino” e a “miele delle isole della laguna veneta”, perché per tali prodotti è espressamente previsto/richiesto.
Coldiretti è giustificabile: spacciare italianità per qualità è la sua mission. Il perché è semplice, avere prodotti d’origine italiana ai suoi soci non costa nulla, lavorano in Italia, ma ottenere prodotti di qualità costerebbe eccome! E poi infilandosi nel solco dei prodotti DOP non è difficile sostenere l’equazione italiano=qualità. Eppure il consumatore non può ignorare le vicende dello zebu della Valtellina o dei maiali esteri in prosciutti DOP, però se ne scorda volentieri perché vuole credere anche lui che italiano è bello e buono e s’incavola perfino se le pentole Lagostina o la moka Bialetti non sono più made in Italy. Quindi Coldiretti è logico che che cavalchi la tigre dell’origine.
Quello che non è tollerabile è il comportamento dei politici che dovrebbero rappresentare tutte le categorie di cittadini e non solo una (ormai nemmeno così tanto consistente). Prendere in giro i consumatori dando per realizzato quello che invece sanno benissimo che sarà bocciato a Bruxelles è davvero squallido!
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