Si moltiplicano gli studi per riconvertire gli scarti alimentari in modo efficace e sostenibile, fornendo prodotti finali di largo impiego. Vanno proprio in questa direzione due studi pubblicati nella seconda metà di febbraio. Nel primo, uscito su Food and Bioproducts Processing, i ricercatori dell’Università statale dell’Oregon sono partiti dagli scarti della lavorazione delle mele utilizzate per la realizzazione dei succhi, che rappresentano tra il 25 e il 30% del loro peso. Di solito questi materiali sono riutilizzati come compost o mangimi per animali, ma gli autori hanno dimostrato che, con opportune aggiunte, è possibile trasformarli in materiali pregiati: come quelli per il packaging alimentare, oggi ancora più richiesto, a causa la crescente diffusione del cibo da asporto.
Finora la polpa, le bucce e gli altri scarti provenienti dalle mele erano ritenuti troppo permeabili all’acqua per poter essere impiegati a diretto contatto con cibi e bevande, ma i ricercatori sono riusciti risolvere il problema incorporando polimeri e composti con caratteristiche per migliorare la resistenza all’acqua come la lignina (proteina lignea a sua volta proveniente dagli scarti del rabarbaro), il chitosano (un polimero a base biologica che si ricava dall’esoscheletro di crostacei e insetti) e piccole dosi di glicerolo (composto organico spesso aggiunto ai materiali per renderli più morbidi e flessibili) e applicando rivestimenti super-idrofobici alla superficie del prodotto.
I ricercatori hanno rapidamente brevettato il metodo e il prodotto ottenuto, anche perché si stima che il mercato degli imballaggi sostenibili andrà incontro a una vera esplosione. Basti pensare che un colosso come Coca-Cola si è impegnato a impiegare almeno il 25% di contenitori riutilizzabili entro il 2030 e altre aziende stanno percorrendo una strada analoga. Tra queste anche Nestlé che, tra il 2019 e il 2020, ha ridotto il peso del suo packaging del 3% e sta aumentando la quantità di packaging riciclabile.
Il secondo studio, uscito su Chemical Science, produce un risultato completamente diverso, ma sempre attraverso il riutilizzo intelligente di materiale organico fino a poco tempo fa eliminato. In questo caso i ricercatori del Politecnico Federale di Losanna e dell’Istituto di ingegneria dei sistemi dell’Università delle scienze applicate della Svizzera occidentale di Valais, infatti, hanno trovato il modo per sottoporre gli scarti (in questo caso di banana) a una reazione rapida di riscaldamento con lampade allo xeno (fotopirolisi). L’esito finale è la produzione di prezioso syngas (una miscela di gas che contiene monossido di carbonio, idrogeno e metano) da usare come fonte di energia, e di un materiale organico chiamato biochar composto da carbonio poroso che, a sua volta, può essere bruciato, o usato come fertilizzante.
La resa è ottima: da un chilo di biomassa secca da bucce di banana si ottengono 100 litri di idrogeno e 330 grammi di biochar, vengono inoltre generati anche monossido di carbonio e alcuni idrocarburi leggeri. Tutto questo fornisce complessivamente una produzione netta di energia (tenendo conto anche di quella necessaria per indurre le reazioni) di 4,09 megajoule. A rendere il metodo ancora più promettente, c’è il fatto che è stato sperimentato con successo anche con altri materiali, come gli scarti del mais e del caffè, le bucce di arancia e i gusci delle noci di cocco essiccati e macinati.
© Riproduzione riservata; Foto: AdobeStock, Oregon State University, Fotolia
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Giornalista scientifica