Si chiama CSDDD, da Corporate Sustainability Due Diligence Directive, e la sua versione definitiva è stata finalmente approvata, dopo mesi di discussioni e polemiche. Purtroppo, come già avvenuto in altri ambiti contigui come i pesticidi, anche grazie ai veti italiani e tedeschi, è assai più blanda rispetto a quella originale, che avrebbe impresso una sterzata decisiva allo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente nelle produzioni alimentari.
Nella stesura precedente, infatti, tutte le aziende con più di 500 addetti (250 nel caso di quelle agricole) e un fatturato superiore ai 150 milioni di euro avrebbero dovuto adeguarsi e certificare le filiere, ma ciò avrebbe comportato un aggravio burocratico non indifferente e, alla fine, secondo gli oppositori, costretto molti a chiudere. Per questo, e per l’imminenza delle elezioni si è arrivati alla versione soft.
La versione attuale della direttiva
Come ricorda Food Navigator, nel testo approvato, le disposizioni interessano solo le aziende con più di mille addetti e 450 milioni di euro di fatturato, anche non europee (ma operanti in Europa), cioè circa 5.000, contro le 16.000 potenzialmente coinvolte nella prima stesura. Tra l’altro, il settore agricolo, prima sottoposto a vincoli maggiori, perché considerato il più a rischio di sfruttamento e pratiche dannose per l’ambiente, oggi non lo è più.
Sono inoltre scomparsi gli obblighi relativi alla tracciabilità dello smaltimento delle produzioni in eccesso, al trattamento e riciclo dei rifiuti, al conferimento in discarica e così via, prima previsti e obbligatori. Ancora: sono state limitate le responsabilità civili delle aziende.
Le tempistiche
Inoltre si è dato molto tempo per l’adeguamento: le società con più di 5.000 lavoratori e 1,5 miliardi di fatturato avranno tre anni, quelle con 3.000 addetti e 900 milioni quattro anni, quelle con mille addetti e 500 milioni di fatturato, cinque anni.
Le aziende dovranno assicurare il rispetto delle norme solo relativamente ai primi interlocutori, e non a tutti gli altri, come previsto in precedenza. Il che significa che un colosso alimentare sarà in regola se si rifornirà da un’azienda più piccola a norma. Se poi quest’ultima otterrà gli alimenti o i materiali da altre aziende che non rispettano l’ambiente o i lavoratori, il colosso non avrà nessuna colpa. È quindi prevista una frammentazione delle responsabilità che in Italia conosciamo fin troppo bene, e che spesso consente di aggirare le norme, o di limitarne fortemente l’efficacia.
Un’occasione persa
Da ultimo, le aziende non sono in alcun modo stimolate a istituire percorsi premiali per i dirigenti che innovino secondo i criteri della sostenibilità ambientale e del rispetto dei lavoratori.
In definitiva, quindi, rimane ben poco, come hanno sottolineato diverse associazioni ambientaliste e di consumatori, e quella che poteva essere una svolta, con ogni probabilità, sarà solo un tiepido richiamo a una maggiore responsabilità.
Il voto definitivo è atteso prima delle elezioni di giugno.
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Giornalista scientifica
dati i problemi incombenti, mi sembra una mancata assunzione di responsabilità. non resta che disperare…
è una cosa vergognosa!