Come si calcola la data di scadenza di un prodotto alimentare? La cosa non è banale per i diversi fattori da considerare. Lo spiega bene Ilaria Trento, biologa, in questo articolo scritto sul sito Food Hub, il primo portale italiano dedicato all’innovazione nel settore agroalimentare, fondato da Francesco De Carolis e Fabio D’Elia. Il sito offre ai lettori un magazine trimestrale in formato digitale e un blog, e invia due newsletter settimanali “News in tavola” e “Pillole di scienza”, quest’ultima focalizzate alle tematiche innovative del settore. Di recente Food Hub ha avviato una serie di webinar formativi rivolti agli stakeholders nell’ambito agroalimentare.
La shelf life di un prodotto è definita come il periodo di tempo in cui l’azienda produttrice garantisce il mantenimento delle caratteristiche organolettiche e al tempo stesso di sicurezza, salubrità e qualità proprie di un alimento. Prima di approfondire l’argomento, è opportuno distinguere tra shelf life primaria e secondaria.
Lashelf life primaria è l’intervallo di tempo, successivo alla produzione e al confezionamento, durante il quale l’alimento mantiene un adeguato livello di accettabilità e qualità, in specifiche condizioni di conservazione. Si definisce invece shelf life secondaria o “pantry shelf life”, il periodo di tempo in cui un alimento mantiene caratteristiche sensoriali, igieniche e/o nutrizionali accettabili dopo l’apertura della confezione [1]. L’accettabilità dipende da moltissimi fattori: crescita di microrganismi indesiderati o pericolosi; variazione di colore/odore/sapore; fenomeni di ossidazione e conseguente perdita di vitamine o di nutrienti; sviluppo di proprietà indesiderate.
Gli indicatori chiave per la determinazione della shelf life, sia primaria che secondaria, sono rappresentati da diversi eventi alterativi che possono aver luogo contemporaneamente in un alimento. Possono infatti verificarsi reazioni enzimatiche, chimiche, ma anche eventi di tipo microbiologico e alterazioni fisiche; tutti questi fenomeni pregiudicano la qualità, la sicurezza, le proprietà e le caratteristiche sensoriali del prodotto. Il limite di accettabilità corrisponde a modificazioni tali da rendere il prodotto inaccettabile al consumatore.
Il sistema con cui si arriva a stimare, nel modo più accurato possibile, la conservabilità di un alimento viene chiamato studio di shelf life. Per la determinazione della shelf life è importante individuare un driver di accettabilità, ovvero un fattore chiave la cui determinazione nel tempo descrive la perdita di accettabilità dell’alimento. Ad esempio: variazioni del profilo aromatico; diminuzione del contenuto di vitamine; eventuali reazioni di ossidazione; individuazione di un microrganismo la cui crescita oltre una certa soglia comporta la perdita di salubrità del cibo. Una volta individuato il (o i) driver critici di quell’alimento specifico, se ne valuta l’andamento nel tempo previsto di shelf life per determinare quando tale driver oltrepassa la soglia di accettabilità e quindi la vita del prodotto giunge al termine [2].
La shelf life dipende innanzitutto dalle caratteristiche intrinseche del prodotto, quali ad esempio gli ingredienti, le proprietà chimico-fisiche, il profilo microbiologico e l’eventuale presenza di additivi con azione conservante [3]. Nella determinazione della shelf life intervengono poi altre 3 variabili: il processo di lavorazione o trasformazione subito dall’alimento, la tipologia di packaging e il processo di confezionamento utilizzato, e ovviamente le variabili di tipo ambientale, quali temperatura e condizioni di conservazione. Volendo schematizzare:
Per prolungare la shelf life di un alimento bisogna quindi agire su una o più di queste quattro variabili:
modificare gli ingredienti e le proprietà intrinseche del prodotto
attuare delle variazioni nel processo
cambiare il packaging
intervenire sulle variabili ambientali
Ovviamente l’alimento e il modo in cui viene trasformato sono fondamentali per ottenere un prodotto finale con una shelf life spendibile sul mercato; è quindi indispensabile scegliere materie prime di buona qualità e applicare la corretta tecnologia di processo per poter poi ottimizzare fattori ambientali e di confezionamento. È bene inoltre sottolineare quanto l’indicazione della shelf life non possa essere considerata come un valore assoluto. Piuttosto si tratta di un’assunzione di rischio sulla base di un’approfondita analisi statistica, che porta l’azienda ad assumersi delle responsabilità precise nei confronti della legge e dei consumatori.
Per tale ragione, valutare, ed eventualmente prolungare, la shelf life è un lavoro di squadra, e uno studio di shelf life non potrà mai essere completamente delegato a terzi. Solo attraverso la stretta collaborazione tra azienda produttrice, partner di riempimento e un laboratorio o consulente specializzato, è possibile individuare i test più appropriati e trovare le migliori soluzioni a livello di processo, confezionatrice e packaging.
Se, come dicevamo, la shelf life del prodotto dipende fortemente dalla qualità delle materie prime, dal processamento e confezionamento, è bene puntualizzare che solo il controllo della contaminazione e il rispetto di adeguate procedure di pulizia e sanificazione possono garantire massima sicurezza e durabilità degli alimenti. È quindi indispensabile monitorare e ridurre al minimo le contaminazioni lungo l’intero processo: dal ricevimento della materia prima, alle superfici e attrezzature implicate nel processo di trasformazione, fino ad arrivare alla macchina confezionatrice.
Un’importante fonte di contaminazione degli ambienti produttivi è rappresentata dalle operazioni manuali svolte sulla macchina, che costituiscono un rischio non standardizzato; in particolare, il modo in cui l’operatore gestisce la macchina e interviene su di essa prima o durante la produzione è di fondamentale importanza e pregiudica la qualità finale del prodotto alimentare. Questo fattore di rischio può però essere tenuto sotto controllo mediante la definizione e l’applicazione di protocolli specifici, ben standardizzati e di cui venga tenuta traccia nello stabilimento.
È di fondamentale importanza quindi mettere a punto delle opportune procedure che prevedano detersione e disinfezione delle macchine coinvolte nel processo produttivo e nel confezionamento, ma ancor prima sensibilizzare gli operatori riguardo il rischio associato alla componente umana. La sanificazione delle mani, l’impiego di indumenti puliti e dedicati al solo ambiente produttivo, l’utilizzo di guanti, copri scarpe e cuffiette, soprattutto nel caso di alimenti facilmente deperibili, deve essere un punto chiave della formazione degli operatori, accompagnato da un’opportuna cartellonistica e da controlli da parte dei responsabili di produzione.
La shelf life è una tematica complessa, in cui intervengono molte variabili: di prodotto, processo, confezionamento e ambientali. Solo con un approccio condiviso tra produttori, fornitori e laboratori è quindi possibile garantire un prodotto sicuro dalla produzione al consumo.
L’articolo pregevole nel contesto abusa di termini inutilmente anglofoni meglio sostituibili con:
l sistema con cui si arriva a stimare, nel modo più accurato possibile, la conservabilità di un alimento viene chiamato studio di (shelf life.) CONSERVABILITA’ DEL PRODOTTO Per la determinazione della shelf life è importante (individuare un driver di accettabilità, ovvero) un FATTORE CHIAVE la cui determinazione nel tempo descrive la perdita di accettabilità dell’alimento. (acceptability era troppo vicino all’italiano per usare questo termine??
Per favore ma perché dobbiamo studiare l’inglese quando l’italiano è perfettamente comprensibile senza bisogno di ulteriori spiegazioni linguistiche per far capire un semplice concetto?
Chi scrive abusando di termini non italiani dà la sensazione di essere uno studente straniero che non conosce ancora bene la nostra lingua
Grazie e scusate lo sfogo
L’articolo ha un contenuto molto tecnico e penso che a molti lettori il vero contenuto possa essere sfuggito.
Per quanto concerne il “vizio italiano” di utilizzare termini inglesi è ahimè diffuso e non se ne capisce la ragione in quanto la lingua italiana è una lingua completa, grazie al cielo, e non ha bisogno di andare a pescare termini inglesi per esprimersi. Basta sentire i telegiornali o i dibattiti con i cosidetti “esperti” sono tutti frammisti di assurdi termini inglesi, il più delle volte pronunciati male. E’ una finta cultura.
Grazie comunque al Fatto Alimentare che ci da sempre informazioni utili ed intelligenti
L’articolo pregevole nel contesto abusa di termini inutilmente anglofoni meglio sostituibili con:
l sistema con cui si arriva a stimare, nel modo più accurato possibile, la conservabilità di un alimento viene chiamato studio di (shelf life.) CONSERVABILITA’ DEL PRODOTTO Per la determinazione della shelf life è importante (individuare un driver di accettabilità, ovvero) un FATTORE CHIAVE la cui determinazione nel tempo descrive la perdita di accettabilità dell’alimento. (acceptability era troppo vicino all’italiano per usare questo termine??
Per favore ma perché dobbiamo studiare l’inglese quando l’italiano è perfettamente comprensibile senza bisogno di ulteriori spiegazioni linguistiche per far capire un semplice concetto?
Chi scrive abusando di termini non italiani dà la sensazione di essere uno studente straniero che non conosce ancora bene la nostra lingua
Grazie e scusate lo sfogo
Sono pienamente d’accordo!
L’articolo ha un contenuto molto tecnico e penso che a molti lettori il vero contenuto possa essere sfuggito.
Per quanto concerne il “vizio italiano” di utilizzare termini inglesi è ahimè diffuso e non se ne capisce la ragione in quanto la lingua italiana è una lingua completa, grazie al cielo, e non ha bisogno di andare a pescare termini inglesi per esprimersi. Basta sentire i telegiornali o i dibattiti con i cosidetti “esperti” sono tutti frammisti di assurdi termini inglesi, il più delle volte pronunciati male. E’ una finta cultura.
Grazie comunque al Fatto Alimentare che ci da sempre informazioni utili ed intelligenti