
Lo storico greco Plutarco racconta che, durante il suo mandato in Gallia Cisalpina tra il 59 e il 55 a.C., Giulio Cesare fu ospite a cena nella domus di un ricco cittadino a Mediolanum, l’attuale Milano. In quell’occasione vennero serviti degli asparagi conditi non con olio, come era consuetudine romana, ma con un unguento – forse burro o mirra – tipico della cucina gallica. Mentre alcuni commensali storcevano il naso, Cesare li rimproverò, affermando che ognuno poteva semplicemente evitare ciò che non gradiva, e che chi si scandalizzava per simili dettagli mostrava a sua volta rozzezza. È da questo episodio che nasce, seppur leggendariamente, l’espressione “De gustibus non disputandum est” – sui gusti non si discute – che sarebbe poi entrata nel linguaggio comune, al pari del celebre “Alea iacta est” o del drammatico “Tu quoque, Brute, fili mi!”.
Al di là dell’autenticità della frase, l’aneddoto mette in luce una differenza antica tra culture alimentari: i Romani cucinavano con l’olio d’oliva, i Galli con altri grassi. Una divergenza che la globalizzazione non ha cancellato, anzi ha amplificato, rendendo sempre più evidente quanto i gusti alimentari siano condizionati dalla cultura.
Come cambiano le preferenze a tavola
Le preferenze a tavola variano da popolo a popolo e mutano nel tempo, influenzate da fattori ambientali, economici, religiosi e simbolici. I gusti alimentari non sono affatto universali e riflettono la storia e i valori di ciascuna società. Per secoli si è creduto che l’essere umano percepisse solo quattro gusti fondamentali – dolce, amaro, acido e salato – ma oggi si accettano almeno un quinto (l’umami, associato alla sapidità delle proteine) e forse un sesto, legato al cloruro d’ammonio, in parallelo con l’idea che i sensi siano cinque e i colori fondamentali sette.
Le ricerche dell’antropologo David Howes e della filosofa del linguaggio Rosalia Cavalieri hanno mostrato come la percezione sensoriale sia tutt’altro che neutra o uniforme. La descrizione e classificazione dei sapori, per esempio, varia moltissimo tra i popoli. I Papuasi identificano l’amaro con ciò che per noi è salato; in alcune culture africane dolce e salato vengono fusi in una sola categoria; in Giappone l’umami è riconosciuto da secoli, mentre in Cina si distinguono anche sapori come l’acre. Gli Indiani parlano di sei gusti, aggiungendo il piccante e l’astringente, mentre i tailandesi arrivano fino a otto categorie, inclusi il grasso e lo scialbo.

La grammatica del gusto
Questa varietà dimostra come ogni cultura sviluppi una propria ‘grammatica del gusto’, che non si limita alla percezione biologica ma integra elementi culturali, simbolici ed emotivi. Cibi perfettamente commestibili in una regione del mondo possono suscitare ripulsa in un’altra. Insetti, rettili, roditori o carne di cane fanno parte della dieta di molti popoli, ma sono percepiti con disgusto nella cultura occidentale. Allo stesso tempo, anche all’interno dell’Europa i gusti cambiano radicalmente nel tempo: basti pensare ai vini dell’antichità, molto diversi dagli attuali, spesso mescolati con acqua, miele, resine o spezie, e probabilmente oggi considerati imbevibili.
Nonostante la varietà, ogni popolo tende a ritenere la propria cucina la migliore, assolutizzando i propri gusti e giudicando quelli altrui come strani o inferiori. Ma il gusto è anche un potente marcatore identitario: gli italiani si riconoscono nella pasta, nella pizza, nel caffè; i cinesi nel riso; i popoli nordafricani nel cous cous. La cucina diventa così parte della cultura materiale e simbolica di un popolo, veicolo di appartenenza, memoria e tradizione.
L’emigrazione ha moltiplicato le occasioni di scambio: oggi le città sono punteggiate da ristoranti che offrono piatti di ogni parte del mondo. Il cibo, in questo contesto, diventa testimonianza di un’identità che resiste anche lontano dal luogo d’origine. Ogni gruppo etnico tende a conservare, almeno in parte, la propria dieta, portando con sé sapori, ingredienti e rituali legati all’alimentazione.

Il gusto è un fatto culturale
Il gusto, come ha scritto Massimo Montanari, è un fatto culturale. Ciò che ci piace o ci disgusta non dipende solo dal nostro palato ma anche dalla nostra storia, dalla famiglia, dall’educazione, dai media, dalla religione. È il contesto sociale che attribuisce significato agli stimoli biologici e sensoriali, trasformando la semplice azione del mangiare in un atto carico di senso. Così come per la vista, l’udito o l’olfatto, anche il gusto è influenzato da ciò che impariamo, da ciò che viviamo, da ciò che condividiamo con gli altri.
Conoscere queste differenze – e riconoscerne la dignità – è un passo importante verso una maggiore consapevolezza. La mondializzazione porta inevitabilmente a un confronto tra modelli alimentari, che può sfociare in conflitto o, al contrario, in arricchimento reciproco. Imparare a gustare il diverso, anche solo assaggiandolo, è un modo per aprirsi al mondo, uscire dai propri schemi e riconoscere che, davvero, sui gusti non si dovrebbe mai discutere per giudicare, ma semmai per comprendere.
Questo tema è stato trattato da Giovanni Ballarini anche in un articolo per Georgofili.info
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Professore Emerito dell’Università degli Studi di Parma e docente nella Facoltà di Medicina Veterinaria dal 1953 al 2002