Secondo un’inchiesta condotta dal quotidiano francese Le Monde insieme ai partner del Forever Pollution Project, in Europa ci sono almeno 2.100 siti in cui le acque presentano un’elevata concentrazione di Pfas (più di 100 ng/l), pericolosa per la salute umana. E secondo un altro rapporto, pubblicato dall’organizzazione svedese no profit ChemSec, i costi degli Pfas per la società, comprese le bonifiche e le cure mediche per rimediare ai danni che essi comportano, sono stratosferici: più di 16 trilioni di euro all’anno. In altri termini, se il costo medio per un chilo di Pfas è di 19 euro, quello per la società è di 18.734 euro.
Come uscire da questa situazione? Quali metodologie – se ne esistono – potrebbero consentire di ridurre progressivamente la concentrazione di Pfas nelle acque e nei terreni? Se lo è chiesta la BBC, che ha pubblicato un lungo articolo nel quale fa il punto sulle soluzioni che potrebbero avere maggiori chance di successo, a costi ambientali ed economici sostenibili.
Pfas, le sostanze chimiche ‘eterne’
Gli Pfas (sostanze per- e polifluoroalchiliche) hanno molteplici applicazioni, dalle padelle antiaderenti alle schiume anti-incendio. Tuttavia sono anche molecole particolarmente resistenti, non a caso chiamate ‘eterne’, grazie al legame tra il carbonio e il fluoro. Spezzare il legame e ottenere frammenti che non siamo a loro volta pericolosi è un’impresa particolarmente ardua. Inoltre, gli Pfas sono migliaia e ciascuno reagisce in modo specifico. Non esistono, pertanto, soluzioni semplici che, oltretutto, non richiedano grandi quantità di energia e che non producano scarti più tossici dei materiali di partenza. Ma qualcosa finalmente si muove.
Rimuovere gli Pfas con i filtri?
Lo strumento che potrebbe sembrare più semplice sono i filtri ma, appunto, non ne esistono in grado di trattenere ogni tipo di Pfas. Tuttavia in centri come i Sandia National Laboratories statunitensi si sta cercando di capire quali siano le caratteristiche migliori dei filtri anti Pfas e quale potrebbe essere il momento ottimale per inserirli, tra i diversi previsti nei processi di purificazione delle acque. Probabilmente, sarebbe meglio metterli dopo il filtraggio del materiale organico più voluminoso, per riuscire a fermarli meglio. Tuttavia, anche qualora si riuscisse ad avere una filtrazione efficiente, la domanda è: che fare degli Pfas rimasti nei filtri? Non è possibile avviarli a un inceneritore, perché sarebbe necessaria troppa energia per distruggerli (il teflon, per esempio, resiste fino a 260°C) e ci sarebbe sempre il rischio di una dispersione aerea. Non è neppure possibile interrarli in una discarica. Anche per questi motivi, probabilmente il filtraggio non è la strada giusta.
Altre strade per rimuovere gli Pfas
Potrebbe invece esserlo quella delle tecnologie basate sull’elettrolisi e sui raggi ultravioletti, già impiegati per sterilizzare acque, ambienti ospedalieri e alimenti. In particolare, l’articolo segnala un metodo messo a punto dagli ingegneri dell’Università canadese della Columbia Britannica grazie al quale uno degli Pfas peggiori, il Pfoa (acido perfluoroottanoico), intrappolato in letto di silice possibile riutilizzabile, viene degradato con una reazione elettrochimica.
Un altro studio dell’Università della California che, grazie agli UV ‘profondi’, cioè con una lunghezza d’onda molto bassa (sotto i 220 nm), ottiene la distruzione degli Pfas senza produrre scarti pericolosi né energia. Il risultato finale è il fluoro, che può essere riutilizzato. Dopo aver dimostrato l’efficacia del sistema nei test in laboratorio, gli autori stanno costruendo un impianto pilota per verificarne le potenzialità su larga scala. Se tutto andasse come previsto, il primo stabilimento potrebbe essere pronto entro due anni e potrebbe purificare milioni di litri di acqua ogni giorno. Oltretutto, dal momento che le lampade UV sono già presenti in moti impianti di depurazione, si potrebbero facilmente realizzare impianti di bonifica dagli Pfas senza investimenti eccessivi.
Batteri che degradano gli Pfas
Esistono infine diversi studi su batteri geneticamente modificati, perché il legame del fluoro è talmente forte che i batteri ‘normali’ non riescono a spezzarlo. Per farlo prima è necessario identificare quali siano i batteri e gli enzimi più promettenti per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Se studi come questo avessero successo, in futuro ci potrebbero essere impianti di decontaminazione biologica, ma i tempi non sono ancora maturi.
Nel frattempo, è cruciale che proposte come quella dell’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche, di una severa restrizione dell’impiego di Pfas siamo velocemente approvati. In generale è necessario ancdare verso l’eliminazione o la diminuzione drastica della produzione e dell’utilizzo degli Pfas, alimentando anche, in questo modo, la ricerca di alternative valide.
© Riproduzione riservata Foto: AdobeStock, Depositphotos
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica
Interessante articolo
Si avevo sentito degli impianti di UV per spezzare la catena cloro /fluoro dei pfas ,ma è un processo ancora lontano da studiare ,quando poi si deve bonificare una falda profonda grande quanto il lago di Garda ho molti dubbi.
Estremamente interessante, sia per l’attualità del problema, sia per le soluzioni allo studio. La problematicità di queste sostanze è stata compresa solo recentemente – ahimè – e conseguentemente la loro diffusione è rilevantissima.
Nel contempo se ne continua a immettere nell’ambiente in quanto i prodotti ai quali ci siamo abituati a usare e consumare sono spesso realizzati anche con quste sostanze. Per questo auspico, come la dott.ssa Codignola nella sua conclusione, che l’ECHA intervenga al più presto. Magari anche mettendo sull’avviso i produttori di questi materiali che è in arrivo un provvedimento restrittivo, e d’niziare a progettare come se queste sostanze non esistessero.
Ancora grazie per l’importanza che date a questo problema.
In un mondo utopico ci sarebbe una legge che proibisca ai chimici di inventare una nuova sostanza senza che siano in grado di “degradarla”, facilmente e senza rischi, ai suoi componenti.