La vicenda del doppio e triplo concentrato di pomodoro cinese aggiunto ai prodotti “Made in Italy” all’insaputa dai consumatori, assomiglia sempre di più a una grande bufala. Dopo la pubblicazione il 26 febbraio 2018 del decreto numero 17 del 16 novembre 2017, che estende l’obbligo dell’origine alle conserve e ai prodotti composti almeno per il 50% da derivati del pomodoro, gli italiani (a partire dalla fine di agosto 2018), potranno sapere da dove viene la materia prima utilizzata per preparare sughi, salse e altre conserve presenti sugli scaffali dei supermercati.
Coldiretti plaude ai nuovi provvedimenti e confida di scovare le aziende che, approfittando di una legge ambigua, indicano sull’etichetta “Made in Italy” anche se utilizzano concentrato importato. La caccia al pomodoro cinese nascosto in salse e sughi è quindi iniziata, anche se sarà molto difficile trovare vasetti che ne indicano la presenza, visto che la quasi totalità dei prodotti italiani in vendita nei supermercati non lo usa.
La leggenda del pomodoro cinese
Questa storia nasce perché in Italia arrivano grandi quantità di doppio e triplo concentrato dall’estero, che viene rilavorato e usato come ingrediente per sughi e altri prodotti in scatola destinati a: Libia, Ghana, Nigeria e decine di altri Paesi. In virtù di questa lavorazione, i prodotti confezionati posso riportare sia la dicitura “Made in Italy”, sia i colori della nostra bandiera. Qualcuno sostiene che una parte di questi prodotti potrebbe fermarsi in Italia ma non è vero, perché i barattoli hanno marchi e noi sconosciuti come ad esempio Gino, un brand molto diffuso all’estero.
In Italia si trasformano mediamente oltre 5 milioni di tonnellate di pomodoro fresco all’anno: importiamo circa 200.000 tonnellate di concentrato di pomodoro da diversi mercati mondiali – quali la Cina*, gli USA, la Spagna, il Portogallo e la Grecia – ma ne esportiamo più del doppio.
I dati
L’85% delle importazioni di concentrato proveniente da paesi terzi (con quantità variabili tra Cina e Usa, principali produttori e trasformatori, in base alle contingenti fluttuazioni di mercato) avviene in regime di “temporanea importazione”, un sistema doganale favorevole definito TPA (traffico di perfezionamento attivo). Il concentrato viene trasformato sul territorio nazionale e poi esportato nuovamente. Il restante 15% (poco più di 20 mila tonnellate) viene rilavorato e utilizzato principalmente come base per la preparazione di altri prodotti (sughi, salse, ketchup, zuppe, pizze surgelate) andando ad aggiungersi alle 320 mila tonnellate di concentrato prodotto da pomodoro fresco italiano. Diventa facile dedurre che l’incidenza del concentrato extracomunitario (cinese e californiano) sul mercato interno (UE) rappresenta circa il 6% della produzione italiana di concentrato.
È giusto fare sapere ai consumatori che da anni il concentrato non figura nell’elenco dei prodotti sottoposti a sequestri o ritiro dal mercato per motivi di carattere igienico-sanitario. In ogni caso dal mese di agosto chi usa doppio o triplo concentrato cinese, californiano, egiziano… dovrà dichiararlo sull’etichetta anche se il decreto prevede la dicitura “UE” oppure “non UE”, non il Paese preciso di provenienza.
Il pomodoro cinese che non c’è
La nuova norma è stata accolta con soddisfazione da Anicav (l’associazione dei produttori), perché l’indicazione dell’origine permette di smascherare le bugie apparse a più riprese sui media che hanno accusato ingiustamente le aziende conserviere italiane di usare concentrato di pomodoro cinese per i prodotti venduti in Italia.
Tra pochi mesi la campagna mediatica portata avanti in questi anni da Coldiretti con decine di comunicati stampa, e un numero spropositato di interventi e articoli su tv, radio, siti e carta stampata sulla presenza di pomodoro cinese, verrà annoverata tra le fake news del settore alimentare. Grazie alla nuova legge milioni di consumatori scopriranno che il concentrato di pomodoro cinese nei prodotti italiani è una grande favola, perché sarà molto difficile trovare nei supermercati un solo vasetto che ne dichiara la presenza. A questo punto diamo il via ufficiale alla ricerca e chiediamo ai lettori di segnalarci e inviarci le foto dei prodotti preparati con concentrato di pomodoro straniero
(*) Solo la metà del concentrato di pomodoro importato dall’Italia arriva dalla Cina, un quarto proviene dalla California, il resto da: Spagna Portogallo, Grecia, Egitto.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
“La nuova norma è stata accolta con soddisfazione da Anicav (l’associazione dei produttori), perché l’indicazione dell’origine permette di smascherare le bugie apparse a più riprese sui media che hanno accusato ingiustamente le aziende conserviere italiane di usare concentrato di pomodoro cinese per i prodotti venduti in Italia.”
Questa è la giusta posizione di trasparenti produttori che hanno compreso che la trasparenza premia, al contrario della nascondenza di altre categorie di produttori che preferiscono segretare l’origine delle materie prime impiegate, in nome di chi sa quale principio di riservatezza tecnologica, segreto di Pulcinella per gli addetti ai lavori, ma disinformazione per i clienti consumatori.
Questa onesta e corretta posizione, richiesta ripetutamente da Il Fatto Alimentare come atto volontario anche ad altri produttori, è normata giustamente e finalmente anche con atti governativi che speriamo si estendano proprio a tutte le categorie di materie prime, nessuna esclusa.
Dove non ci siamo ancora, è la possibilità di appellare un prodotto con il Made in Italy con tanto di bandiera tricolore, anche se la principale materia prima non ha nemmeno sfiorato la terra italiana, ma solamente qualche macchina confezionatrice dislocata nel nostro territorio.
Come se la Coca Cola imbottigliata in Italia fosse un Made in Italy!
Solito discorso inconcludente, importiamo tonnellate di grano duro ed esportiamo tonnellate di pasta con marchio italiano ricercata in tutto il mondo, dovremmo smettere?
Se esportiamo tonnellate di pasta con marchio italiano ricercata in tutto il mondo ed è assolutamente vero, di cosa ha paura gent. Diego, che se indicata la provenienza della materia prima in etichetta, i clienti esteri smetteranno di acquistarla?
E per quale recondita ed inconfessabile ragione?
Forse perché i consumatori stranieri preferirebbero acquistare pasta 100% italiana, credendo erroneamente sia migliore?
E’ tutto qui il patrimonio qualitativo della famosa e ricercata pasta italiana, che una etichetta trasparente può trasformare in un flop commerciale, perché si regge su di un equivoco?
Non credo proprio sia così e spero non lo creda nemmeno lei.
I veri nemici commerciali attuali, nel mercato della pasta italiana sono turchi ed egiziani, che vendono pasta di minor qualità della nostra a prezzi molto competitivi ed è solamente con la qualità che possiamo spuntare margini di guadagno per tutta la filiera.