L’alimentazione dei prossimi anni non potrà prescindere dai cibi coltivati o comunque ottenuti in laboratorio. Sono in molti a esserne convinti, per l’esigenza di avere fonti di proteine e altri nutrienti alternative agli animali e ai pesci di allevamento per non meno di 10-12 miliardi di persone. Lo ricordano la BBC, in un articolo dedicato al cibo del futuro (in particolare a tutto ciò che può servire a produrre alimenti senza le emissioni associate ai sistemi attuali), e Nature, in una sintesi della situazione attuale specificamente incentrata sul pesce coltivato.
L’articolo della BBC si sofferma su un aspetto finora meno noto, rispetto a quello più pubblicizzato della carne, quello del latte e dei suoi derivati, perché anche il consumo di questi prodotti incide non poco sulle emissioni, ed è in costante aumento. Il latte del futuro proverrà, anche, dalla biologia sintetica, cioè facendo produrre tutte le proteine fondamentali del latte a funghi e lieviti, fino a ottenere come prodotto finale un liquido che assomiglia molto al latte vaccino: ci sta provando, da alcuni anni, l’azienda californiana Perfect Day (nelle immagini sopra e sotto i loro prodotti). In alternativa, la TurtleTree Labs di Singapore utilizza cellule staminali opportunamente stimolate e messe nei bioreattori affinché producano latte senza bisogno dell’animale.
In entrambi i casi ci sono ancora ostacoli non di poco conto da superare, prima di vedere i prodotti nei supermercati. Il primo riguarda le caratteristiche nutrizionali, che per il latte (e i suoi derivati) come per la carne devono essere del tutto paragonabili a quelle degli alimenti di provenienza: un traguardo non facile da ottenere, perché un conto è giungere a prodotti che ‘assomigliano’ anche molto a quelli di origine, ma tutt’altra cosa è arrivare a sostituti sovrapponibili dal punto di vista nutrizionale. Un altro limite è il costo, che sarà equiparabile a quello degli analoghi classici solo quando saranno attivi grandi stabilimenti per la produzione su ampia scala, e quando saranno organizzate le filiere della distribuzione.
Infine c’è la parte normativa, ancora da definire (per esempio per quanto riguarda l’etichettatura, la scadenza, la conservazione e così via) e per al quale ogni Paese o macroarea fa da sé. Secondo diversi osservatori, comunque, gli ostacoli saranno superati, e carni e latticini coltivati saranno ben accolti dal mercato, in primi luogo dai più giovani, curiosi e soprattutto disposti a provare nuove strade per contribuire all’abbattimento delle emissioni. Secondo un recente sondaggio sulla disponibilità dei consumatori britannici a provare alimenti coltivati, il 40% del consumo di carne del Regno Unito potrebbe essere rappresentato da prodotti coltivati in laboratorio.
Le stesse difficoltà, comunque, si riscontrano anche per il pesce coltivato, il cui sviluppo, tuttavia, sta procedendo a tappe forzate, perché l’esigenza di ottenere prodotti ittici con metodi alternativi alla pesca e all’allevamento è molto forte, per certi aspetti ancora più che per la carne. In più, il pesce coltivato è senza lische, scaglie e interiora, e ciò significa che la sua produzione in vitro sarebbe molto più efficiente di quella tradizionale.
Nel mondo al momento ci sono 14 tra aziende e start up che stanno lavorando sul pesce, e nell’elenco pubblicato di Nature realizzato dal Good Food Institute, ente di ricerca che segue specificamente questi settori, si vede come si siano differenziate fino a sintetizzare tonno, salmone, aragoste, caviale, pesce azzurro, gamberi, carpe, trote e altro, in versione occidentale o come basi per il sushi, in una incredibile varietà di tentativi. In questo caso, inoltre, l’arrivo sul mercato potrebbe essere più vicino: per esempio la BlueNalu, con base a San Diego, ha firmato un accordo per la distribuzione in Europa con Nomad Foods e ha siglato diverse partnership in Asia, mentre la Avant Meats di Hong Kong ha stretto un accordo con un colosso biotecnologico di Singapore per la produzione su larga scala per il mercato orientale, e altre iniziative simili sono in corso in tutto l’estremo oriente.
In più alcune di queste aziende e start up stanno ricorrendo a una strategia di marketing inedita per l’analoga carne e molto intelligente: non solo offrono assaggi in luoghi dedicati e aperti al pubblico, ma lo fanno in stanze che, attraverso pareti in vetro, permettono di assistere al lavoro dei bioreattori. L’idea è che avendo visto e conoscendo i processi produttivi, si sia più disponibili a provare questi alimenti, anche facendo un confronto con le acquacolture o con i problemi associati alla pesca in mare. Per il momento i prodotti più avanti sono le polpe, perché per far crescere veri e propri filetti occorre inserire nella lavorazione bioscheletri che conferiscano la tridimensionalità e la consistenza di quelli di origine. Ma esistono comunque già molti bioscheletri vegetali in studio, che stanno dando ottimi risultati.
Dal punto di vista normativo, infine, il percorso potrebbe essere più semplice rispetto alle carni, almeno negli Stati Uniti, dove il pesce rientrerà solo sotto la Fda (e non anche sotto il Dipartimento dell’agricoltura, come accade attualmente per le carni). Infine, c’è il problema del prezzo: per ora si parla di un costo medio di 20 mila dollari al chilo (stima dell’azienda di consulenza CE Delft per il Good Food Institute), ma si pensa anche che, come la carne, la produzione su larga scala farà rapidamente calare i costi, fino a renderli accessibili.
© Riproduzione riservata Foto: Perfect Day, BlueNalu, Avant Meats
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica