Meno antibiotici negli allevamenti: si rischia di favorire i batteri resistenti, con serie ripercussioni sull’efficacia delle cure dei pazienti malati
Meno antibiotici negli allevamenti: si rischia di favorire i batteri resistenti, con serie ripercussioni sull’efficacia delle cure dei pazienti malati
Beniamino Bonardi 9 Febbraio 2016L’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (BfR) invita a limitare l’utilizzo di antibiotici per non favorire lo sviluppo della resistenza a questi farmaci, importanti per l’uomo. L’Istituto ha pubblicato tredici risposte alle domande più frequenti sull’utilizzo di antibiotici negli allevamenti che nell’Unione europea possono essere utilizzati, su prescrizione dei veterinari, solo in caso di malattia (in altri stati come gli USA si usano a scopo preventivo o per favorirne la crescita). Un uso parzialmente preventivo è di fatto consentito anche nell’Ue, perché quando si somministra un antibiotico a uno o più animali infetti che vivono in gruppo, di norma lo si somministra anche agli altri, per evitare che l’infezione si diffonda.
Molti degli antibiotici utilizzati negli animali sono importanti anche per l’uomo e l’Organizzazione mondiale della sanità ha compilato una lista. In Germania, tra il 2011 e il 2014, la quantità di antibiotici in dotazione ai veterinari e alle farmacie veterinarie è scesa da 1.706 tonnellate a 1.238. La diminuzione riguarda la stragrande maggioranza degli antibiotici, ad eccezione delle cefalosporine di terza e quarta generazione, che sono rimaste stabili, e dei fluorochinoloni, che sono invece aumentati. Questo rappresenta un elemento critico, dato che si tratta di due classi di antibiotici particolarmente importanti per l’uomo e il possibile sviluppo di resistenze rappresenta un rischio reale.
I batteri che sopravvivono e proliferano possiedono meccanismi (sopraggiunti per mutazione) tali da renderli insensibili all’azione dei farmaci in grado di inibirli o di ucciderli. Quando l’uomo contrae un’infezione causato da questi ceppi il trattamento è più difficile, le patologie possono durare più a lungo e manifestarsi con maggiore gravità. I germi resistenti possono essere presenti negli alimenti provenienti da allevamenti (carne, latte…) ma vengono uccisi con un trattamento termico (bollitura, cottura, frittura, pastorizzazione). I consumatori devono prestare attenzione all’igiene, evitando che i cibi crudi, potenzialmente contaminati, entrino a contatto con altri da consumare crudi, anche attraverso le stoviglie. La carne deve essere cotta a una temperatura di almeno 70°C per non meno di due minuti.
Secondo l’Istituto federale tedesco l’uso di antibiotici negli allevamenti contribuisce allo sviluppo di microbi resistenti anche se non ci sono dati sufficienti per stimare in che misura ciò influenzi la diffusione dell’antibiotico-resistenza nell’uomo. Secondo il BfR l’uso di antibiotici dovrebbe essere limitato e occorre cercare di mantenere gli animali in buona salute in modo da evitare trattamenti sanitari.
Per quanto riguarda ìresidui di antibiotici nel cibo, secondo il BfR è possibile trovarne in tutti gli alimenti di origine animale, come carne, uova e latte, se nell’allevamento si fa uso di farmaci e non si rispetta il periodo di tempo previsto per lo smaltimento del farmaco. Se i medicinali sono usati correttamente, una volta trascorso questo periodo gli eventuali residui non sono giudicati preoccupanti. A differenza dei batteri la cottura della carne non garantisce l’eliminazione degli eventuali residui. Negli allevamenti biologici l’uso di antibiotici non è vietato ma nella maggior parte dei casi i medicinali sono poco utilizzati, anche se, afferma il BfR, non ci sono statistiche affidabili in merito.
La vera soluzione al problema è risaputo ormai anche dai consumatori e consiste nell’allevare gli animali in modo “umano”.
Cioè con spazi adeguati, possibilmente all’aperto e comunque in locali molto arieggiati, con cibo sano e fisiologico per ogni specie animale, senza pastrocchi.
Praticamente secondo il disciplinare biologico, sicuramente più costoso nel prezzo al kg, ma più economico nell’impatto sociale sanitario.