Altroconsumo di ottobre dedica un’interessante inchiesta al riso basmati: per una volta, a finire nella rete dei “taroccatori” non è un prodotto made in Italy, ma una specialità esotica che si scopre essere facilmente oggetto di frodi.

Originario della regione himalayana, il riso basmati (parola che significa “regina del profumo”) è forse il prodotto indiano più presente sulle nostre tavole, grazie alla sua fragranza, al sapore spiccato, ai caratteristici chicchi affusolati che restano separati e asciutti dopo la cottura. Caratteristiche che lo rendono contorno ideale di molte ricette esotiche, come il pollo al curry.

Per capire che razza di riso è quello che ci viene venduto come basmati, i ricercatori di Altroconsumo si sono serviti di una sofisticata analisi di laboratorio. Grazie all’amplificazione del Dna è stato ottenuto un profilo genetico per ogni campione analizzato. Questa “impronta” è stata poi messa a confronto con il profilo del vero basmati.

Il riso basmati ha in India una protezione simile a quella dei nostri prodotti tipici. Anni fa un’azienda americana tentò di brevettare alcuni ibridi di basmati coltivati negli Stati Uniti, ma il governo indiano bloccò l’iniziativa.

I produttori si sono dati un codice volontario con regole precise sulla denominazione del prodotto: la denominazione “riso basmati” può essere data solo ad alcune varietà che crescono nell’area geografica al confine tra India e Pakistan; il riso basmati può essere indicato come “made in India” o “made in Pakistan” solo almeno il 97 per cento dei chicchi proviene da uno di questi due paesi; la eventuale quantità di riso non basmati presente non deve superare il 7 per cento; il produttore non è obbligato a indicare la specifica varietà del basmati (Pusa, Super, Dehradum…), ma se lo fa, almeno il 97 per cento deve essere della varietà indicata.

In Europa la normativa è più restrittiva: le varietà basmati ammesse sono poche (15 nel codice volontario, 9 in Europa), e la percentuale di risi diversi deve essere sotto il 5 per cento. Altroconsumo ha verificato la tipicità del riso basmati in vendita nei nostri supermercati, spesso importato dall’India e confezionato da produttori italiani o europei. Sono stati analizzati 20 campioni.

Nessun prodotto è risultato puro al 100%, ma minime percentuali di chicchi estranei sono tollerate dalle norme commerciali internazionali e sono frutto di contaminazioni non volute. In tre casi, però, le percentuali di falso basmati erano talmente elevate da essere irregolari: dunque, Riso Mittino, U! (Unes) e Roncaia non possono definirsi basmati. Il prodotto Unes non è affatto basmati, ma addirittura un’altra varietà.

Secondo Altroconsumo, la “colpa” non è dei marchi italiani, ma la frode è probabilmente avvenuta all’origine, introducendo nel nostro mercato riso indiano meno pregiato con le agevolazioni commerciali riservate al basmati, come l’abolizione del dazi doganali all’importazione. I risultati sono stati segnalati ai produttori, e la catena di supermercati Unes ha deciso di cambiare fornitore per garantire un prodotto conforme alla norma.

Interessante anche l’aspetto costi. Il riso basmati è mediamente più caro rispetto alle varietà nostrane: 3,50 euro al chilo contro 2,30 euro al kg dell’Arborio e 2,80 euro al kg del pregiato riso Carnaroli. L’acquisto di marchi delle grandi catene di distribuzione non offre grossi risparmi, in alcuni casi sono addirittura più cari delle marche più famose. Più il formato è piccolo, più il prezzo lievita, e ci sono notevol differenze di prezzo – fino al 200 per cento – tra una marca e l’altra.

Mariateresa Truncellito

Foto: photos.com

Tabella: Altroconsumo

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