C’è chi la chiama pubblicità mascherata e chi occulta, in realtà si tratta di un vecchio sistema utilizzato da giornali, radio e anche tv per promuovere un prodotto o un marchio, senza fare capire che si tratta di un messaggio a pagamento. A volte il giochino riesce, altre volte si rivela un boomerang come dimostrano decine i casi di censura rilevati dall’Antitrust e dal Giurì della pubblicità.
La segnalazione di oggi arriva da una giovane lettrice che, sfogliando l’ultimo numero di Vanity Fair dedicato ai 10 anni del giornale, ha notato alcune anomalie in due articoli. Il primo (alle pagine 400 e 401), è un servizio dal titolo “E tu di che colazione sei?” che illustra le varie combinazioni di cibo che si possono ordinare nei fast food McDonald’s di mattina. Il servizio è fatto con cura e sembra vero, ma osservando con attenzione in alto a sinistra sopra il titolo si nota la scritta “VANITY PER MCDONALD’S” (vedi foto sotto). La legge prevede che la pubblicità nei giornali e in tv sia riconoscibile e ben distinguibile da servizi. In questo caso però l’unico elemento che dovrebbe fare capire che si tratta di un’inserzione a pagamento è la dicitura “VANITY PER MCDONALD’S”. Troppo poco!
L’altro “articolo” che ci ha colpito riguarda 4 pagine (240-241) di un servizio intitolato “Il rap parla italiano“, con la fotocronaca di una manifestazione tenuta da quattro famosi rapper il 24 settembre al Forum di Assago, dove sono stati selezionati giovani talenti in una serata sponsorizzata dalla Pepsi. Per capire che si tratta di una pubblicità bisogna notare la piccola scritta collocata in alto a destra vicino al bordo “VANITY PER PEPSI” (vedi foto). Girando pagina (242-243) il titolo cambia (Live) ma il servizio continua con le foto dei giovani vincitori. Anche in questo caso l’unico elemento che dovrebbe fare capire di essere di fronte a un’inserzione pubblicitaria a pagamento è la scritta in alto a sinistra “VANITY PER PEPSI” (vedi foto sotto).
Per il lettore decodificare la natura commerciale del reportage fotografico è difficile, perché le altre pubblicità presenti nel giornale si distinguono bene dagli articoli e non lasciano spazio ad ambiguità. A volte c’è una cornice colorata intorno alla pagina, altre volte la differenza è palese e non si presta ad interpretazioni errate.
Siamo di fronte a due casi che potrebbero essere considerati il tipico esempio di pubblicità mascherata. Voi cosa ne pensate?
Roberto La Pira
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
chiaramente borderline. Una possibilità potrebbe essere rendere obbligatorio riportare la dicitura “comunicazione pubblicitaria” (con virgolettato per renderla sempre e comunque uniforme ed uguale senza frasi di fantasia come quella di vanity fair. Altro espediente potrebbe essere quello di rendere obbligatorio applicare la medesima dimensione di carattere del titolo della pubblicità o del pseudo articolo.
I modi ci sono, basta un minimo di pragmatismo, cosa che in Italia purtroppo latita.
I modi ci sono ma il mondo pubblicitario ha sempre un po’ fatto a modo suo e la violazione delle regole è la norma, anche perchè nel 90% dei casi la volazione passa sotto silenzio.
Ciao a tutti, volevo portarvi la mia breve esperienza personale. Ho chiesto ad amici o semplici conoscenti che lavoravano per magazine/emittenti televisivi locali di dare la notizia della nascita della mia piccola impresa innovativa, e loro mi hanno risposto che, in buona sostanza, “senza soldi non si cantano messe”; in particolare la responsabile di un magazine a diffusione locale, anche se molto glamour e prestigioso, mi ha proposto la pubblicazione di un PUBBLIREDAZIONALE (è questo il nome che danno alla cosa di cui si parla nell’articolo), cioè una pubblicità che è scritta dalla redazione, in tutto assomigliante ad un articolo, p. es. con un’intervista a me o ai miei partner commerciali. L’articolo sarebbe apparso anche online, con un “banner linkato”. Intorno ai 500 euro per il tutto, durata un mese, con varie opzioni in più e in meno. È dunque pubblicità bella e buona. Ah, dimenticavo: il pezzo giornalistico me lo dovevo scrivere io. Pure.