Secondo l’ultimo rapporto Eurispes, il 7,2% degli italiani è vegetariano e il 2,3% vegano, mentre il 5% dichiara di essere stato vegetariano. Il numero di coloro che si dichiarano vegani è quadruplicato dal 2014, mentre i vegetariani sono aumentati del 3% rispetto allo scorso anno. Nel complesso sono quasi 10 su 100 gli italiani che non mangiano carne, per motivi legati alla salute, al rispetto degli animali o alla sostenibilità ambientale.
Forse hanno un ruolo in queste scelte anche i reportage e le inchieste che suscitano grande scalpore mostrando sempre più spesso polli, maiali e altri animali subire maltrattamenti e vivere in condizioni drammatiche. Sono argomenti che riscuotono grande interesse e in parte si riflettono sul mercato, per lo meno per quanto riguarda la diffusione dei sostituti della carne. Tofu, seitan, e ancora di più i burger vegetali a base di soia, piselli o altro, hanno spazi sempre maggiori nei supermercati.
Gli italiani mangiano meno carne?
In che modo sta cambiando l’alimentazione degli italiani? Stiamo davvero abbandonando la carne? Secondo i riscontri Ismea, basati su rilevazioni ISTAT, nel 2023 la spesa per le carni è cresciuta del 6,7% rispetto all’anno precedente, ma i volumi sono aumentati solo per il settore avicolo. Insomma, abbiamo speso di più perché sono aumentati i prezzi. Sono diminuiti würstel, salumi e carni suine, mentre la carne bovina, con un +0,6% si può considerare stabile e il settore avicolo cresce del 5,3%.
Un andamento che, in linea generale, è confermato dal Rapporto annuale dell’Associazione industriali delle carni e dei salumi (Assica) riferito al 2023. In questo caso si parla di “consumo apparente”, dato che si ricava dal valore della produzione nazionale a cui viene aggiunta la quota di import e sottratta la quantità esportata, rappresenta quindi il volume di carne suina e salumi disponibile per il consumo degli italiani. La disponibilità al consumo di salumi è stata poco sotto al milione di tonnellate e il consumo apparente pari a 16,7 kg pro capite (in linea con il 2022). Considerando la somma di salumi e carni suine fresche, il consumo apparente è pari a circa 28 kg a testa, in calo rispetto al 2022, perché è diminuito il consumo della carne suina fresca.
Nel complesso, quindi, pare di poter dire che la carne ha sempre grande successo e il calo della carne suina, controbilanciato dall’aumento del pollame fa pensare a scelte motivate da una maggior attenzione alla salute e alla spesa, le carni avicole sono infatti le più magre e meno costose.
C’è un’alternativa agli allevamenti intensivi?
Insomma, ci scandalizziamo di fronte alle immagini degli allevamenti intensivi, ma continuiamo a mangiare carne e salumi. Qual è l’alternativa? Innanzitutto, bisogna dire che non esiste una definizione legale di allevamento intensivo, ma possiamo definirlo come un tipo di allevamento che prevede la custodia degli animali in spazi ristretti e confinati, spesso al chiuso, ridotti a “macchine da carne” (ne abbiamo parlato anche in questo articolo sull’allevamento dei polli). Una condizione che interessa la maggior parte degli allevamenti in Italia, come nel resto dei Paesi sviluppati.
Secondo la Banca Dati Nazionale dell’Anagrafe Zootecnica (BDN), al 30 giugno 2024, il 93,5% dei polli allevati per la carne si trovava in un allevamento convenzionale (e quindi intensivo), il 2% in allevamento biologico e il 4,2% in un sistema alternativo. L’ 87% dei suini era in allevamento stabulato, cioè all’interno di recinti, in allevamenti intensivi, e solo il 2% in un allevamento semi brado. Per il restante 11% il metodo è “non indicato”, quindi presumibilmente in un allevamento intensivo. Insomma, verosimilmente la quota di suini che si trova in un allevamento intensivo è pari al 98%.
Per quanto riguarda i bovini la situazione è più complessa, perché bisogna considerare se si tratta di allevamenti per la produzione di latte, di carne o misti, inoltre per la metà circa non è indicato il metodo e in questi casi è probabile che si tratti di allevamenti intensivi. In linea di massima è plausibile credere che circa il 70% dei bovini allevati per la produzione (solo) di carne sia in un allevamento intensivo, ma è una cifra che sale fino al 97% se si tratta di un allevamento destinato esclusivamente alla produzione di latte.
Il parere del CIWF Italia
È possibile trovare carne di animali allevati nel rispetto del loro benessere? Esistono certificazioni relative alle modalità di allevamento? Ne abbiamo parlato con Annamaria Pisapia, direttrice di Compassion in World Farming Italia (CIWF) associazione che si occupa del benessere degli animali allevati a scopo alimentare.
“Purtroppo, non esiste una norma che regoli l’etichettatura di prodotti di origine animale secondo il metodo di produzione, affinché riporti in maniera trasparente come l’animale che viene allevato per la loro produzione abbia vissuto. L’unica eccezione sono le uova in guscio, che riportano stampigliato sul guscio e sulle confezioni il metodo di allevamento: in gabbia, a terra all’interno di capannoni, a terra e con accesso all’aperto, o infine con metodo biologico.
La normativa europea (recepita da quella italiana) definisce gli standard minimi di allevamento per alcune specie (come galline, suini e polli da carne) ma non per altre (mucche e conigli ad esempio). In ogni caso anche la legislazione presente è minimalista e dovrebbe essere urgentemente migliorata per garantire agli animali una vita degna di essere vissuta, cosa che non accade al momento. La legge ammette, per esempio, che le galline possano trascorrere tutta la loro vita chiusi in gabbie minuscole . Si tratta quindi di una vera e propria crudeltà legalizzata. L’unica alternativa certificata all’allevamento ‘convenzionale’, che faccia riferimento a una specifica normativa, è l’allevamento biologico, ma anche in questo caso ci possono essere delle ‘interpretazioni’ della normativa.”
Quali sono le differenze nel biologico, rispetto agli allevamenti convenzionali?
“Le caratteristiche degli allevamenti biologici sono diverse a seconda della specie allevata – spiega Pisapia – in generale, però, questa modalità prevede un approccio che dovrebbe essere più rispettoso degli animali, sia per lo spazio a disposizione sia per la fruizione del pascolo e in generale il benessere. Si tratta comunque, purtroppo, di un numero molto ridotto. E resta il problema che, con pochissime eccezioni, il resto della produzione è ‘convenzionale’, ovvero intensiva. Anche attraverso il lavoro in coalizione con altre associazioni, stiamo facendo pressione a livello nazionale ed europeo perché vengano adottati sistemi di etichettatura che permettano, quando si acquistano prodotti di origine animale, di sapere con chiarezza e trasparenza come hanno vissuto gli animali.”
Cosa possiamo fare, oggi, per trovare carne di animali allevati con modalità più rispettose?
“Non è facile – afferma Pisapia – l’ideale è informarsi personalmente dalle aziende e andare a visitarle, ma questo non è quasi mai possibile, soprattutto se facciamo acquisti al supermercato. In ogni caso ci sono alcuni accorgimenti da mettere in atto: per prima cosa non considerare claim quali “100% italiano”, “allevato senza antibiotici”, o “naturale” come garanzia di benessere animale. Questi prodotti possono provenire da allevamenti intensivi che non danno alcuna indicazione concreta di come l’animale abbia vissuto. Meglio cercare prodotti da allevamento all’aperto o biologico. Ma anche in questo caso, se possibile, sarebbe utile chiamare o scrivere all’azienda per chiedere conferma dell’effettiva fruizione del pascolo.”
La questione dei prezzi
C’è poi un ultimo problema, non trascurabile: la carne biologica o comunque prodotta tenendo conto del benessere animale, ha costi più elevati dei prodotti analoghi da allevamenti convenzionali. Questo è vero ma non dimentichiamo che la carne venduta a prezzi stracciati ha dei costi nascosti che ricadono sia sulla salute che sull’ambiente.
La prospettiva più auspicabile sarebbe quindi quella di ridurre il numero di animali allevati e garantire loro condizioni di vita dignitose. Il prezzo della carne aumenterebbe ma non come si immagina e questo garantirebbe un risparmio dal punto di vista della salute e della salvaguardia dell’ambiente.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
Mangio con soddisfazione frutta & verdura, ma non sono vegetariano, tuttavia tra il consumare carne e farlo nella totale indifferenza del “benessere animale”, c’è differenza.
Nel 2018 abbiamo deciso di eliminare (o ridurre il più possibile) dalla nostra alimentazione la carne da allevamenti intensivi o simili ovvero di acquistare solo carne Bio o da allevamenti che garantiscano il benessere animale, la tutela ambientale e di conseguenza la salute dell’animale prima e la nostra poi.
Va da sè che si consumerà meno carne dato che quella bio non la trovi ovunque e talvolta non ha costi accessibili, però fino a che non riusciremo a fare il grande passo ed eliminare la carne, preferisco questo compromesso al non fare niente.
Concordo totalmente con lei, anche io cerco di consumare meno carne perché è difficile trovare quella biologica. Sì è un compromesso, spero si giunga presto ad un disposizione di legge che imponga di indicare in etichetta il tipo di allevamento a cui è stato sottoposto l’ animale.
Gli allevamenti intensivi sono una vergogna per la dignità dell’ uomo!!
…anche perchè l’SQNBA, Sistema Qualità Nazionale Benessere Animale, sembra essere ancora molto in divenire e parecchio fuori sincrono con la realtà delle cose…
Oltre al benessere animale vi è anche la qualità della carne, se la gente vedesse veramente in che condizioni vivono negli allevamenti intensivi gli animali che mangiamo probabilmente non li mangerebbe più. Io preferisco essere vegano e ne sono orgoglioso
Pienamente d’accordo bisognerebbe che tutti (o quasi) mangiassimo MOLTA meno carne; andrebbe a beneficio di tutti ma sembra che ben pochi (TROPPI) se ne rendano conto
Sicuramente mangiamo meno carne in famiglia un po’ per salute, visto l’età non più giovane, e un po’ perché non ci sono garanzie sul benessere animale in vita ed in morte. Purtroppo non riusciamo a fare a meno di consumare prosciutti e simili perché piacciono molto, ma non trovare più marche di sicura qualificazione mette molto in ansia sull’acquisto e così abbiamo ridotto anche il consumo dei salumi preferendo pasta e formaggi….. a discapito della salute. Purtroppo non mangiamo volentieri le verdure
L’unico modo per garantire il benessere agli animali e non ucciderli e non sfruttarli in nessun modo. Se parlassimo di benessere degli esseri umani o se pensassimo al nostro benessere come individui, questo non implicherebbe per nessuno credo, voler essere allevati con lo scopo di diventare cibo, pelle, o divertimento per altri. La parola benessere è fuori luogo ed usata per renderci leggera la coscienza. Io per prima ho per diversi anni comprato latte e uova da allevamenti che ritenevo migliori. Oggi mi rendo conto che nessun tipo di allevamento può essere rispettoso come io intendo questa parola per me o per i miei cari compresi i miei cani e gatti. Ogni allevamento prevede per forza sfruttamento e macellazione degli animali. Ogni essere vivente dovrebbe semplicemente vivere per sé stesso. Capisco che la nostra cultura ci ha condizionato e che le tradizioni ci sono care, ma non volerle perpetrare significa alla fine barattare il proprio gusto con la loro morte e sofferenza fisica e psicologica.
Se per cultura intende un’attività a cui la specie Homo sapiens si dedica fin dalla sua comparsa 300.000 e passa anni fa, perché vi si dedicavano anche i suoi antenati non sapiens, allora sì, la cultura ci ha condizionato… nel senso che l’onnivorismo è una caratteristica BIOLOGICA della nostra specie, però, non un passatempo voluto da chissà chi. Ovviamente la quantità di prodotti animali consumati ora è fin troppo superiore a quanto necessario, tuttavia l’allevamento è pratica ben presente in moltissime culture umane almeno da 10.000 anni, e da ben prima dell’agricoltura, quindi evidentemente presentava un vantaggio evolutivo, o altrimenti non sarebbe stata adottata più volte in diverse parti del mondo e in diverse epoche, senza bisogno di “influenze da parte dell’industria della carne”.
Vorrei inoltre fare presente che l’atteggiamento di chi si pone sul piedistallo delle motivazioni etiche per rinunciare a consumare prodotti animali rappresenta una forma di antropocentrismo ancora più spinta, in quanto si ritiene che, in quanto esseri umani, siamo in grado di superare o allontanarci dalla nostra natura biologica di onnivori e rinunciare a qualcosa che fa parte della nostra alimentazione da centinaia di migliaia di anni. Oltretutto per farlo ci si appoggia alla capacità di produzione agricola moderna (nessuna coltivazione biologica sarà mai in grado di produrre la quantità di alimenti vegetali in grado di fornire la quantità di calorie e nutrienti necessaria all’attuale popolazione mondiale, se tutti diventassero vegani).
Buongiorno Claudia.
Il successo della nostra specie è stato attribuito, oltre allo sviluppo del linguaggio, alla sua adattabilità all’ambiente circostante che non implicava sempre la caccia che era svolta dove le risorse più accessibili e meno pericolose scarseggiavano.
Oggi non vi è più la necessità di cacciare né di allevare animali per nessun fine. Personalmente non ritengo l’essere umano né superiore né inferiore alle altre specie. È tuttavia indubbio che ognuno di noi può scegliere se contribuire o meno nel condannare, senza necessità, la vita esseri senzienti per cibo, vestiario, intrattenimento ecc.
Probabilmente non è a conoscenza che è proprio uno stile di vita che non preveda utilizzo di animali come fonte alimentare che può permetterci di risparmiare terra, acqua, biodiversità, ridurre riscaldamento globale, inquinamento, diffusione di virus e antibiotico resistenza.
La conversione tra proteine vegetali e proteine animali è un processo inefficiente. In media, per produrre 1 grammo di proteine animali, servono tra 6 e 25 grammi di proteine vegetali. La variazione dipende dal tipo di animale e dal sistema di allevamento.
Questa inefficienza contribuisce a un elevato uso di risorse agricole per produrre carne, latte e uova rispetto all’alimentazione umana diretta con proteine vegetali. Scusi il papiro. Le consiglio di guardare il documentario ‘dominion’ anche se sono quasi certa che non lo farà. Un saluto
Gentile Cristina, capisco la sua posizione ma non mi pare possibile da generalizzare. L’essere umano è onnivoro. A prescindere dalla possibilità di fare scelte vegane, penso che sia importante fare tutto il possibile per permettere una vita decente agli animali allevati a scopo alimentare.
Giusto battersi per il benessere animale, ma è un fatto che la produzione di proteine animali per alimentazione umana attraverso l’allevamento è altamente inefficiente rispetto alla produzione agricola di proteine vegetali e anche questo va ricordato, come giustamente ha fatto Cristina.
Purtroppo dopo aver visto il documentario italiano “Food for profit”, capisco bene come mai non vi sia nessuna legge né sugli allevamenti intensivi né sulle etichettature.
Proprio per queste mancanze impiego molto tempo a leggere le etichette e quasi mai trovo le risposte che cerco. A volte provo a cercare su internet se la ditta di produzione ha un sito con foto etc, ma la maggior parte delle volte rimango nel dubbio e concludo che è meglio non comprare affatto.
Scrivete che bio è spesso sinonimo di maggior benessere animale. Siete sicuri di questo? Non vorrei che fosse una delle tante etichette di presa in giro e trovarmi a pagare il quadruplo per la stessa cosa.
Comunque, non si può fare qualcosa, una petizione magari, per richiedere quantomeno una definizione legale di “intensivo” e un obbligo di indicare in etichetta provenienza e condizioni di vita degli animali?
Il biologico deve rispettare regole precise e il benessere animale deve essere garantito.
Ok, mi fa piacere sentirlo, già adesso compro quasi tutto bio, ma almeno per quanto riguarda frutta e verdura mi è capitato di leggere talvolta opinioni contrastanti. Chi dice che basta pagare per avere le certificazioni. Chi dice che magari solo una parte di produzione è bio e il resto no quindi involontariamente vai comunque a contribuire al reinvestimento in ‘intensivo’.
Comunque è veramente assurdo che in Paesi dove esistono sulla carta leggi contro la violenza sugli animali, non vi sia almeno una definizione di cosa sia intensivo e cosa no. Quantomeno ci sarebbero produttori che potrebbero scrivere “da allevamento non intensivo” (sia carne che pesce) e con questo permettere al consumatore di fare scelte più consapevoli. È ovvio che gli interessi economici nel mantenere fumose le cose siano ENORMI, ma cosa hanno di diverso questi animali dagli altri? Già nascono per essere mangiati, ma almeno una vita decente per quanto breve..
Il nostro desiderio è promuovere allevamenti di polli a crescita lenta a prezzi accettabili e spingere i produttori ad adottare un sistema di etichettatura come quello delle uova per permettere ai consumatori di scegliere che tipo di pollo comprare
Gruppi d’acquisto solidali
Questo articolo mi sembra un po’ riduttivo… e la giornalista omette di citare due grosse aziende che garantiscono “allevamenti di maiali non intensivi *” PEDRAZZOLI E FUMAGALLI. Mi sembra strano che la giornalista non sia riuscita a trovare queste aziende.. Le trovate anche io
Grazie per la segnalazione, probabilmente ne esistono anche altre
Gentile Adriano, conosco le aziende di cui parla e probabilmente ne esistono anche altre. Esistono anche suoni allevati in modo semibrado, ma il problema è proprio che non abbiamo un sistema di etichettatura “ufficiale“, quindi soggetto a controlli, che ci permetta di distinguere in modo chiaro i diversi tipi di allevamento.
Esatto !! Sistema di etichettatura certo e slegato dagli etichettandi…quindi impossibile…lasciate perdere…bio o non bio per certi allevamenti il benessere è un utopia.
Mangio carne uova e latticini, ma vedendo come vengono allevati polli, mucche e maiali, ho ridotto drasticamente il consumo. Visto e considerato ciò, sto prendendo seriamente in considerazione il consumo di carne coltivata, oppure fare come facevano i nostri nonni: carne? Si, ma una volta a settimana e di qualità.
A mio parere la soluzione è la carne coltivata
La signora Pisapia invece di scrivere “il prezzo aumenterebbe ma non come si immagina, dovrebbe
prendere carta e matita e fare due conti, se ne è capace, per farci conoscere il prezzo delle varie carni con i diversi tipi di allevamento.
Il prezzo dei polli della Bresse (Francia) è di 25/30 euro il kg..
Negli anni 1950/60 i consumatori hanno “estinto” i vitelli allevati con latte di vacca perché la carne costava di più dei vitelli allevati con farina di latte, inoltre la carne di questi ultimi era bianca, tenera e senza grasso (fatti che non esistono in natura).
La massa dei consumatori ha sempre fatto delle scelte guardando esclusivamente il prezzo,
la grande distribuzione ha agito di conseguenza e gli allevatori anche. Bisogna avere l onesta’ di dire queste cose e trovare soluzioni, non teoriche che servono solo a riempire le pagine dei giornali e far chiacchierare la gente che non ha nessuna conoscenza in materia,
ma pratiche, indicando vari metodi di allevamento e conseguenti prezzi di vendita, tenendo presente che tutti lavorano per avere un margine di utile.
Gentile Alberto, certamente la carne proveniente da animali allevati in modo più “rispettoso” costerebbe di più, ma non quanto ipotizza lei. Sono convinta che sia necessario tenere presente sia il benessere animale che la sostenibilità economica, per questo sarebbe necessaria più chiarezza sulle modalità di allevamento, in modo che ognuno possa decidere se e quanto spendere. Comunque penso che il prezzo finale dipenda in buona parte da scelte di marketing e dalle caratterisiche del mercato. Sulla piattaforma online di Carrefour France il pollo Label Rouge costa 6,50 €/kg (https://www.carrefour.fr/p/poulet-blanc-d-auvergne-label-rouge-filiere-qualite-carrefour-3560070731107). Non sarà il pollo di Bresse, ma mi pare una certificazione piuttosto “autorevole”.
Io acquisto (poca) carne biologica da allevamenti bradi, tramite un Gruppo di Acquisto Solidale. Integro le proteine consumando legumi.
Buongiorno a tutti
Trovo interessante l’articolo
Porto all’attenzione quanto segue per partecipare al dibattito: attualmente c’è poca ‘cura’ di se’ e del proprio mondo circostante: dovremmo insieme ‘promuovere’ un cambiamento di prospettiva: ascoltare i nostri bisogni primari e promuoverli piuttosto che seguire passivamente quanto ci viene proposto. Gli animali subiscono lo stesso maltrattamento che infliggiamo a noi stessi quando ‘seguiamo’ senza poter scegliere pensare riflettere e quindi facciamo vacanze in ‘villaggio’ o mangiamo senza sapere che cosa abbiamo nel piatto e portiamo i bambini in luoghi tossici per rumore stile …. Rimbocchiamoci ancor di più le maniche sarà molto bello promuovere un cambiamento
“Questo è vero ma non dimentichiamo che la carne venduta a prezzi stracciati ha dei costi nascosti che ricadono sia sulla salute che sull’ambiente.”
Grazie Valeria Balboni, si tende sempre a dimenticare i costi che non vediamo legati ai nostri stili di vita…