L’utilizzo di pesticidi sembra essere associato a un aumento del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson. Lo suggerisce uno studio presentato al meeting annuale dell’American Academy of Neurology dai ricercatori del Barrow Institute of Neurology di Phoenix, in Arizona, che per verificare la relazione si sono avvalsi dei dati di una grande regione degli Stati Uniti: quella delle Montagne Rocciose e delle Grandi Pianure. In quell’area è infatti possibile distinguere le zone scarsamente abitate da quelle votate all’agricoltura intensiva, che fa un ampio ricorso a pesticidi ed erbicidi di ogni genere, e trarre conclusioni motivate.
Lo studio sui pesticidi
Per verificare il ruolo dei fitofarmaci sugli abitanti, gli autori hanno preso in considerazione i dati del servizio Medicare (la sanità pubblica per coloro che non hanno un’assicurazione) del 2009, relativi a 2,5 milioni di persone con più di 67 anni, e li hanno messi in relazione con l’impiego, nell’area, di 65 diversi pesticidi (quelli per i quali erano disponibili dati sufficienti). Il risultato è stato che 14 sono fortemente sospettati di aumentare il rischio di Parkinson. In particolare, i tre peggiori sarebbero la simazina, l’atrazina e il lindano.
Nelle zone dove l’impiego di simazina è stato più massiccio, il rischio è aumentato del 36%, mentre per l’atrazina e il lindano i valori sono risultati essere, rispettivamente, +31% e +25%. L’incidenza, che nelle contee a basso uso è stata di 380 casi ogni 100.000 abitanti, in quelle dove si è fatto più ricorso alla simazina è stata di 411 casi (sempre ogni 100.000), mentre per l’atrazina il valore è stato di 475 casi ( rispetto ai 398 casi nelle contee con l’esposizione più bassa) e per il lindano di 386 casi (rispetto ai 349 casi delle contee con l’esposizione più bassa).
I limiti
Questo genere di studio presenta alcuni limiti, quali il fatto che non è possibile stabilire un rapporto di causa ed effetto, ma solo la coesistenza dei due fenomeni. Tuttavia, studi del tutto simili, anch’essi realizzati partendo dai dati anche geografici, hanno fatto emergere un legame simile con la demenza di Alzheimer. Sembrerebbe esserci quindi un nesso tra la dispersione di grandi quantità di pesticidi e la neurodegenerazione, dato peraltro sostenuto anche da altri dati degli ultimi anni. Ma resta da dimostrare in modo inequivocabile. Allo stesso modo, esistono centinaia di altre molecole utilizzate per i medesimi scopi, e sulla maggior parte di esse, così come sui cocktail, e sugli accumuli negli organismi superiori, non si sa praticamente nulla, da questo punto di vista.
La risposta europea e il progetto One Crop Health
Anche per questi timori l’Unione Europea aveva imboccato la strada giusta, definendo l’obiettivo del dimezzamento entro il 2030. Ma, com’è noto, al momento tutto è sospeso, a causa delle proteste dei trattori.
Va invece avanti un grande progetto delle Università di Copenaghen e Aarhus, in Danimarca, insieme all’istituto specializzato inglese Rothamsted Research, chiamato One Crop Health finanziato, tra gli altri, da Novo Nordisk (l’azienda che produce gli antidiabetici della famiglia dell’ozempic) con otto milioni di euro. Appena iniziato, il progetto durerà sei anni, e avrà lo scopo di definire strategie innovative, avvalendosi di strumenti quali l’intelligenza artificiale e i droni per il monitoraggio, la raccolta dati e la programmazione quotidiana dei trattamenti, che dovrebbero essere preferibilmente di lotta biologica integrata. Tutto ciò, secondo le stime, potrebbe portare a un dimezzamento della necessità di pesticidi tradizionali, senza minimamente ridurre le rese, anzi.
L’idea di fondo è quella di vedere un campo come un ecosistema, e non più cercare di risolvere i problemi quali le infestazioni singolarmente, via via che si presentano, con soluzioni che, in passato, si sono rivelate spesso peggiorative, per esempio perché hanno selezionato batteri resistenti.
Inoltre, per progettare interventi davvero efficaci, i ricercatori hanno arruolato oltre cento agricoltori danesi e inglesi, che saranno parte attiva del progetto, segnalando le difficoltà reali, e suggerendo soluzioni che, nella loro esperienza, sono efficaci. Queste ultime dovrebbero poi essere re-interpretate secondo tutti i più moderni mezzi tecnologici, e verificate nei campi degli stessi agricoltori.
One Crop Health dimostra infine che, quando c’è la volontà, studiare come migliorare la situazione è possibile. Soprattutto quando si ragiona in un intervallo di tempo medio, e non ci si preoccupa delle eventuali elezioni che potrebbero tenersi in quel periodo.
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Giornalista scientifica
1) “Anche per questi timori l’Unione Europea aveva imboccato la strada giusta, definendo l’obiettivo del dimezzamento entro il 2030. Ma, com’è noto, al momento tutto è sospeso, a causa delle proteste dei trattori.”: sconfortante! Sia per il caso specifico che per l’ennesima dimostrazione di una politica incapace di gestire il presente e il futuro.
Associo i due articoli, questo sul grano Canadese e/o di qualche altra parte importato, certo non muffoso ma innaffiato di pesticidi, e quello sullo studio dei pesticidi che fanno male alla salute!!!
Che poi, quanto conviene importare per poi esportare!? E comunque, quanto costa di inquinamento, e ancora comunque, non è che noi ci dobbiamo mangiare il grano canadese e/o di qualche altra parte, ed esportiamo il nostro, che pure c’ha i pesticidi, grazie ai vari governi e pure a Coldiretti, che basterebbe usare il metodo di coltivazione di una volta, visto che è confermato che è più salutare e più redditizio visto che non impoverisce il terreno.
Grazie dello spazio
Claudia