Il contenuto di sale nelle pizze vendute nei supermercati e nelle grandi catene di ristorazione nel Regno Unito negli ultimi anni non è affatto diminuito come ci si aspettava. Al contrario, in alcuni casi è aumentato in misura allarmante. Quindi non resta che una soluzione: introdurre norme e leggi che obblighino i produttori a modificare le ricette. A questa conclusione giunge il dettagliato rapporto appena reso noto da Action on Salt, l’associazione che riunisce 24 esperti e che, con il supporto della Queen Mary University di Londra, cerca di monitorare la presenza di sodio negli alimenti e di fare pressione affinché scenda sensibilmente. Come in molti altri Paesi, infatti, anche nel Regno Unito i cittadini hanno un consumo medio molto al di sopra dei 6 grammi giornalieri consigliati dalle linee guida nazionali (*), e ciò si traduce in migliaia di casi in più di ipertensione, malattie cerebro- e cardiovascolari, patologie renali, osteoporosi, tumori allo stomaco, decessi e relativi costi per il sistema sanitario. E la responsabilità, più che del singolo, è dei produttori, che continuano a proporre alimenti pieni di sale.
Nel caso della pizza, alimento popolarissimo anche al di là della Manica, Action on Salt aveva già fatto un’indagine sul campo nel 2014, e ora ha voluto verificare se ci sono stati o meno i cambiamenti annunciati. Nei primi ani Duemila, infatti, il Governo aveva convinto le principali aziende a intraprendere un processo graduale di riduzione del sale in ben 80 tipologie di alimenti. Fino al 2011, tutto era andato bene: si erano registrate diminuzioni della concentrazione di sodio comprese tra il 20 e il 40%, in media; parallelamente, si era avuta una diminuzione dei casi di patologie associate all’eccesso di sale e dei relativi costi sanitari. Poi però la campagna governativa ha perso slancio e, anche se sono stati indicati nuovi obiettivi da raggiungere entro il 2024, per il momento non sembra che in molti stiano lavorando per raggiungerli.
Nella nuova indagine, i ricercatori hanno analizzato il contenuto in sale e calorie di poco meno di 1.400 pizze acquistate in negozi e supermercati, quindi sia refrigerate che surgelate, oppure nelle catene di ristoranti che avevano la pizza nel menu, almeno 50 punti vendita nel Paese e che mettevano a disposizione le necessarie informazioni nutrizionali.
In generale, la situazione cambia parecchio in base al canale di vendita, perché quelle acquistate nei negozi e nei supermercati mostrano una maggiore adesione agli obiettivi di riformulazione dichiarati, raggiunti nell’85% dei casi (per quanto riguarda sale e calorie), mentre se la pizza proviene dalla ristorazione, solo il 57% dei campioni ha centrato i target del sale e il 40% quello delle calorie. In media, le prime sono migliorate rispetto al 2014 (forse grazie alla spinta delle etichette a semaforo), le seconde sono quasi sempre peggiorate e nel 66% dei casi forniscono, come minimo, i 6 grammi che in teoria non si dovrebbero superare nell’arco di una giornata; in un caso si è passati da 5,3 a 14,3 grammi, cioè a un quantitativo più che doppio rispetto a quello massimo consigliato giornalmente dalle linee guida nazionali. Una delle pizze di Domino’s conteneva addirittura 21,3 grammi di sale, cioè più del triplo del sale consigliato nel Regno Unito, mentre un’altra, da supermercato, ne contiene 9,2, cioè quanto tre porzioni di Big Mac e patatine di McDonald’s.
Eppure cambiare si può: alcuni dei marchi della GDO hanno ridotto il sale del 20-30%, senza avere alcun contraccolpo sulle vendite. Inoltre, abbassare il quantitativo di sale aggiunto non è come ridurre lo zucchero, perché il sale spesso non è fondamentale nella ricetta e la riformulazione, quasi sempre, non comporta investimenti tecnologici (nel caso dello zucchero, invece, spesso richiede sostituzioni con altre sostanze o additivi). Inoltre, i consumatori – è stato dimostrato in numerosi studi – spesso non se ne accorgono neppure e, al contrario, apprezzano prodotti meno dannosi.
Per questi motivi, e anche per l’estrema variabilità dei prodotti in vendita che confonde i consumatori, Action on Salt chiede, anche attraverso un’intervista rilasciata a FoodNavigator, che siano introdotti limiti di legge e, soprattutto, una tassa specifica per spingere i produttori a riformulare, come dimostra il caso delle bevande zuccherate. È stato calcolato che tra il 2015 e il 2019, la sugar tax ha ‘rimosso’ 47mila tonnellate di zucchero dalle bibite vendute nel Regno Untio: è ora di fare lo stesso con il sale. Del resto, la stessa Oms ha affermato come le uniche misure realmente incisive siano quelle che prevedono obblighi di legge: fidarsi della buona volontà dei produttori, in tutta evidenza, è inutile.
(*) Nota: Le linee guida nazionali britanniche raccomandano di non superare l’assunzione di 6 grammi di sale al giorno, in contrasto con le raccomandazioni dell’Oms (da cui derivano anche le linee guida italiane) di massimo 5 grammi al giorno
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Giornalista scientifica
Aspettiamo gli stessi controlli sul sale anche sulle piadine italiane. Stanno diventando un caso da manuale.
è assolutamente vero. vorrei aggiungere come anche il pane, al sud, è molto salato e non ci sono che rarissimi casi in cui il suo contenuto sia sceso, da che partì la campagna del ministero della salute con l’invito ai produttori acché ne diminuissero le quantità. purtroppo, a parte queste rarefatte iniziative salutiste di qualche ministero, da parte di quest’ultimi, in concreto, non vedo nessuna attività che possa seriamente cambiare in meglio l’attuale situazione. tutto rimane nelle mani di pochi avveduti consumatori…