Gli italiani comprendono veramente il valore culturale di ciò che mangiano o soffrono di ‘analfabetismo alimentare’? È la domanda che si pone Giovanni Ballarini, in un articolo di approfondimento pubblicato su Georgofili.info, notiziario di informazione a cura dell’Accademia dei Georgofili.
L’analfabetismo alimentare è una piaga dell’odierna società italiana anche perché l’alfabetizzazione alimentare pare un argomento di scarso rilievo al quale pochi s’interessano, se non per lamentarsi della dilagante assenza di cultura degli italiani sul cibo, in cucina e sulla tavola. Secondo una definizione ampiamente condivisa, una persona è alfabetizzata quando ha conoscenze e competenze essenziali, che le consentono di operare pienamente nel suo gruppo e nella sua comunità. Tra i modelli di alfabetizzazione, importante è l’approccio funzionale, per il quale analfabeta non è solo chi non è capace di leggere e scrivere, ma anche chi non capisce quello che ha letto o fatto. L’analfabetismo funzionale in Italia riguarda ben oltre la metà, forse i tre quarti della popolazione, che ha difficoltà a comprendere un testo scritto con un discorso compiuto per il quale si richiede una sia pur minima riflessione e interpretazione. Una condizione poco nota ai più, ma che spiega il successo della comunicazione non scritta, per immagini fisse e soprattutto mobili, o nella quale lo scritto è ridotto al minimo: semplici frasi e non discorsi. Un analfabetismo culturale, che è ben spiegato dalla celebre frase di Eugenio Montale: “Il rapporto tra l’alfabetismo e l’analfabetismo è costante, ma al giorno d’oggi gli analfabeti sanno leggere”.
Analfabeti funzionali della cucina sono coloro che, pur cucinando e apprezzando i buoni sapori, non ne comprendono i significati e i valori culturali, in altre parole sono al di fuori di una civiltà della tavola. Come per la lingua, anche per la cucina gli analfabeti funzionali sono quelli che non capiscono quello che fanno. Questi nuovi analfabeti cucinano cibi e mangiano piatti di cui non conoscono il significato e il valore, che non può essere sostituito da qualche arido numero che si riferisce a calorie, proteine, vitamine e altro, e neppure da un’immagine accattivante o tanto meno da un nome divenuto un flatus vocis, non di rado travisato e strumentalizzato. Un’alimentazione senza significato è senza un’anima, quindi culturalmente morta. Non esistono precise e dettagliate ricerche sul grado di alfabetizzazione alimentare, ma Biasio e Corbellini riferiscono di uno studio sull’analfabetizzazione scientifica condotto su nove Paesi dell’Unione Europea che mostra risultati deludenti, in cui l’Italia occupa un posto basso in classifica con il 55% della popolazione che presenta livelli di alfabetizzazione inadeguati, che riguardano anche l’alimentazione. È dall’analfabetizzazione alimentare che a ogni piè sospinto nel nostro Paese dilagano idee assolutamente fantasiose sul cibo e sulla cucina e non altrimenti si spiega l’espandersi e il successo di diete e di modelli alimentari irreali.
L’ignoranza funzionale del cibo alimenta anche le più strane idee sulla natura, origine, struttura e significati culturali dell’alimentazione, con la diffusa incapacità di gran parte della popolazione che vive in Italia, non solo italiani, di capire i diversi tipi di etichette, mentre l’unico dato comprensibile è quello del prezzo. Di conseguenza, senza sminuire il valore dei prodotti tradizionali e la ricerca dei luoghi delle tradizioni alimentari, l’ignoranza funzionale lascia spazio all’apparentemente irrefrenabile dilagare delle falsificazioni, non solo degli alimenti, quanto del loro significato e utilizzo, spesso mascherato in fenomeni di vintage alimentare o di cucina del territorio. Tutto questo sembra contrastare l’idea, se non il ritornello di un’Italia delle buone cucine della tradizione, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, la scomparsa delle tradizioni che avevano un ruolo di alfabetizzazione con la loro autorevolezza, quando prevaleva un’educazione alimentare di tipo familiare nella predominante società contadina e in quella borghese.
Parecchio, se non tutto, inizia a cambiare con l’unificazione del Regno d’Italia e, se molti hanno esaltato il ruolo e il successo del libro di Pellegrino Artusi, non è stato sufficientemente rimarcato il ruolo di alfabetizzazione alimentare della classe borghese che si andava formando, dimenticando o sottovalutando che la nuova classe sociale urbana del ceto medio che si forma nella seconda metà del XX secolo diviene campo aperto di un profondo analfabetismo alimentare, improvvisa piaga endemica della nuova società italiana. Nello stesso periodo e con il calare anche dell’importanza del ceto medio, in una nuova frantumata società italiana, nasce e si diffonde l’idea di un’educazione alimentare, convinti del ruolo di un’alfabetizzazione basata su due poli culturali impostati su due percorsi tra loro diversi: il polo medicale e il polo territoriale. Si parla di diete e di prodotti del territorio, spesso a chilometro zero. Questi due poli di cultura educativa alimentare sono tra loro scollegati per le scelte degli alimenti e per il loro uso, in un bipolarismo che provoca dubbi, incertezze e atteggiamenti di sfiducia, favoriti anche dai mezzi di comunicazione che tendono a spettacolarizzare le informazioni e non a creare una vera alfabetizzazione funzionale.
Oggi non ci si rende conto che l’analfabetismo alimentare è solo uno degli altri analfabetismi, e non di scarso peso, che nel secolo XXI percorrono la società italiana. Allo stesso modo si sottovaluta che la cultura alimentare si fonda su strumenti di conoscenza e su esperienze con pratiche e norme, interne ed esterne, e dinamismi sociali e storici che la percorrono e la modificano, tutti parte integrante della storia italiana. Su questa linea si può comprendere il ruolo quasi inesistente che ha un’eventuale, ma talvolta evocata, educazione alimentare da sviluppare nelle scuole con un’ipotizzata ora d’insegnamento, come pure il ruolo prevalentemente tecnico e professionale e non culturale della gran parte delle scuole di cucina pubbliche (Istituti alberghieri ecc.) e private.
Una comprensione storica dell’analfabetismo alimentare non è un’operazione semplice, perché si riferisce a una popolazione che vive in Italia e che in sostanza è pluralista e al tempo stesso non ha gli strumenti per affrontare il problema, intervenire e trovare vie d’uscita. Senza dubbio, l’analfabetismo alimentare è una piaga dell’odierna società italiana, particolarmente grave in una società calda in rapida evoluzione, e in un contesto nel quale l’Italia si trova a vivere in una mondializzazione con libera circolazione delle persone con i loro costumi, abitudini alimentari e alimenti e con nuovi arrivi di popolazioni con propri linguaggi, religioni e idee alimentari. Mai come in questo momento gli italiani analfabeti a tavola sono argomento di un interesse variamente articolato e per affrontarlo e cercare di risolverlo il primo passo sta nel riconoscerne la presenza e l’importanza.
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Professore Emerito dell’Università degli Studi di Parma e docente nella Facoltà di Medicina Veterinaria dal 1953 al 2002
Perfettamente d’accordo e non aiutano certo le invenzioni alimentari con nomi evocativi e che parassitano i prodotti comuni e tradizionali (Birramisù, Hamburger Vegano, Mortadella vegetariana…)
Io invece dissento, nel senso che, pur essendo queste innovazioni di prodotto perlopiù aliene alla nostra cultura alimentare e di matrice puramente commerciale, non sono affatto convinto del nostro disorientamento collettivo in tema di origini ed espressione dell’agroalimentare e gastronomico nostrani. Ma quanta consapevolezza in più avrà mai potuto avere la classe contadina dei secoli scorsi che era angustiata dalla scarsità e dal bisogno? Pensiamo facesse riflessioni sulla differenza tra patata a pasta gialla e patata viola della Tuscia?
Mi sembra un articolo generalizzante, molto retorico e debole nel dimostrare la tesi e le connesse ipotesi.
Questo commento avrei voluto scriverlo io, ma visto che mi hai preceduto, non posso fare altro che associarmi, soprattutto al finale del commento❗
Ricco d spunti di approfondimento, anche antropologici, questo contributo del prof. Ballarini. Mi soffermo su due punti:
-“… si diffonde l’idea di un’educazione alimentare, convinti del ruolo di un’alfabetizzazione basata su due poli culturali impostati su due percorsi tra loro diversi: il polo medicale e il polo territoriale. Si parla di diete e di prodotti del territorio, spesso a chilometro zero. Questi due poli di cultura educativa alimentare sono tra loro scollegati per le scelte degli alimenti e per il loro uso, in un bipolarismo che provoca dubbi, incertezze e atteggiamenti di sfiducia, …”. A mio parere è già un buon risultato aprirsi a incertezze, dubbi e relative domande. Significa che i tentativi di alfabetizzazione, di modificazione delle mie conoscenze, producono degli effetti. Magari proprio con quegli “alti e bassi” che un sapere non consolidato comporta. Da qui agli atteggiamenti di sfiducia il passo poi è breve.
Tentativi di alfabetizzazione non necessariamente oscillanti tra polo medicale e polo territoriale, proprio per quel processo di mondializzazione accennato in conclusione dell’articolo; ma anche sintesi. Mi riferisco alla dieta mediterranea, che, a mio parere, è espressione di una sintesi tra questi due poli.
Certo, la probabilità che i mezzi di comunicazione spettacolarizzino i contenuti è alta; e lo si è visto – restando sulla dieta mediterranea – in diverse occasioni, al punto che molti nutrizionisti ed esperti hanno più volte richiamato alla corretta impostazione di questa dieta. Ma in quale ambito disciplinare, umanistico, la manipolazione, il travisamento, la semplificazione, gl’interessi, non producono effetti, anche deleteri, su conoscenze/comportamenti/rappresentazioni?
-L’altro punto interessante riguarda l’educazione alimentare. Quando s’insegna (o si forma, cioè si fa formazione) il tempo e i contenuti sono due ingredienti importanti ma non sufficienti. E’ opportuno anche:
a) coinvolgere i partecipanti – magari attraverso il palesarsi di aspetti emotivi collegati a quel sapere specifico; spingere e sollecitare per far scaturire delle domande alimentate dalla curiosità; b) stimolare a un ragionamento collettivo sull’argomento trattato – che andrà magari ad aprire un altro scenario di approfondimento; c) praticare l’interdisciplinarietà, coordinandosi con gli argomenti sviluppati da altri docenti. Queste modalità di attuazione di un intervento di educazione alimentare rilevano ai fini di un successo educativo.
Fornire degli strumenti di base per un’alfabetizzazione alimentare è possibile.
Mi scusi, ma che cosa ha scritto? O meglio, qual’é il suo punto?
Non si capisce proprio nulla…salvo che lei stesse scherzando e ci stesse allegramente “portando in giro”.
Può indicarmi quali punti trova incomprensibili?
Onestamente non riesco a cogliere quali siano le ipotesi e le antitesi a sostegno della sua tesi – l’alfabetizzazione alimentare è possibile- e questo anche perché manca una compiuta sintesi finale. Ma più concretamente non trovo la spiegazione, esattamente come nell’articolo madre, di che cosa si intenda per alfabetizzazione alimentare, verso chi sia rivolta questa idea, quale ne sia lo scopo e quali ne siano gli obiettivi.
Non intendevo fare un trattato teorico e metodologico sull’alfabetizzazione alimentare per mezzo di uno strumento come l’educazione alimentare. Mi limitavo ad affermare che l’educazione alimentare permette di raggiungere dei risultati in termini d’implementazione di conoscenze e competenze.
Il prof. Ballarini ci ricorda che anche per quel che riguarda l’alimentazione, c’è analfabetismo; alimentare. E aggiunge che una persona è alfabetizzata “… quando ha conoscenze e competenze essenziali, che le consentono di operare pienamente nel suo gruppo e nella sua comunità.”.
Quando si acquista un prodotto al supermercato non tutti hanno conoscenza del prodotto, di come è arrivato su quel vassoietto di polistirolo per offrirsi a noi con dei dati e delle informazioni stampigliate sulla confezione, ad esempio, ma non solo; coltivato? allevato? spontaneo? conservabile? risente delle temperature? perde aspetti nutrizionali con una cottura sbagliata? meglio rispettare una quantità nel nutrirmene o posso eccedere? è più digeribile al dente o ben cotta?
Spero di essere stato in grado di risponderle, un saluto.
Mi piacerebbe intromettermi pur non invitato in questa interessante disputa.
Ho interpretato il commento non sintetico, difetto anche mio, del signor Giova come una constatazione/invito a informare di più le persone sul funzionamento del corpo umano e sulla basilarità dell’alimentazione nel funzionamento di tutto l’essere umano, nessun ambito escluso.
D’altra parte capisco chi, di fronte alla generica e fugace parola “istruzione”, si deprima/arrabbi pensando che stiamo perdendo tempo quasi imbrogliando le persone….che bisogno c’è di perdere tempo quando ci sono tante persone addette, ricerche in corso e aziende che producono un immenso lavoro e prodotti per rimediare all’ignoranza alimentare, indotta e/o innata a cui delegare il compito ingrato?
Tutti gli stati patologici sono in via di risoluzione……perchè preoccuparsi?
L’andamento in voga sarebbe “lasciamo pure che ognuno segua il suo gusto personale”, il palato…..purtroppo imbrogliato da tante sostanze vecchie e nuove, poi più o meno facilmente si rimedia muovendo nel frattempo una economia particolarmente florida.
Quindi ci si chiede, in tempi frenetici anche se molte delle cose che ci impegnano sono frivole, cosa vuol dire insegnare fondamentale e corretta disciplina alimentare? Serve scalare una immensa montagna?
L’argomento principale misconosciuto da molti, alla base di tutto è che il cibo regola tutte le funzioni del corpo e della mente, quindi bisognerebbe spiegare come funziona il corpo/mente con le sue regole generali e successivamente quelle particolari personali di cui dobbiamo essere consapevoli, inevitabilmente.
Cibo che deve contenere tutte i micro e macro-nutrienti utili ed essere contemporaneamente privo di sostanze inutili o dannose a livello generale immesse durante la coltivazione/crescita, la preparazione e/o conservazione, l’eventuale cottura ecc.
Una montagna di cose utili da sapere già solo fermandoci qui, utilissime in una epoca in cui “ogni” settore soffre della sindrome pubblicitaria commerciale.
Ci si preoccupa che il figlio del macellaio non gradisca si parli male dell’attività di suo padre o che il figlio di chi lavora in una fabbrica di pesticidi faccia altrettanto? Vale anche per il figlio del fruttivendolo e del vegano……….oppure che qualcuno pensi che facendo attività fisica supplementare tutto si aggiusta?
Si arricchiscono gli studenti e non si offende nessuno portando a conoscenza le varie risultanze in maniera oggettiva, chiaramente consapevoli che le sintesi personali sono responsabilità dei singoli informati e formati nello spirito critico, e anche consapevoli del fatto che ci sono infinite vie corrette in giro per il mondo.
È una favola che ci sia una generica unica via “migliore” per tutti.
Grazie, interpretazione corretta.
Molto interessante. Cosa posso studiare per ridurre il mio analfabetismo alimentare? Da dove partire e che percorso seguire?
Se si tratta di ridurre, può provare a individuare le lacune delle sue conoscenze. Anche soltanto leggendo ilFattoAlimentare potrà raccogliere su un taccuino le domande che via via le si porranno. Categorizzi in un secondo momento le domande, seguendo il criterio dell’ambito disciplinare (ad es.: l’igiene, la trasformazione degli alimenti, gli aspetti nutrizionali) o della pratica (ad es.: la cottura, la conservazione). A questo punto le sarà agevole individuare l’area dove si è posto un maggior numero di domande; e scegliere conseguentemente un libro, per iniziare a conoscere meglio l’ambito che ha trovato più interessante. In questo modo proverà piacere, e sarà in seguito più motivato nella conoscenza di altri aspetti.
Bell’articolo! L’educazione alimentare secondo me è importantissima, più delle etichette a semaforo che invece rischiano di aumentare l’analfabetismo alimentare poiché con un codice semplicissimo (da analfabeti, appunto), senza capacità critica e quindi di scelta, ci si convince di ottenere come risultato un’alimentazione nel complesso equilibrata.
Gentilissima, gli studi effettuati al riguardo mostrano proprio il contrario. dal report “L’analisi dei differenziali ha evidenziato che Nutri-Score è particolarmente adatto a sottopopolazioni a rischio dal punto di vista nutrizionale, come i giovani adulti o le persone con scarse capacità di lettura e di calcolo. Uno studio condotto in Francia su oltre 14.000 persone71 ha dimostrato che la probabilità di classificare correttamente i prodotti utilizzando Nutri-Score, rispetto a una situazione di controllo in cui non era disponibile alcuna etichetta, era particolarmente elevata nei partecipanti provenienti da contesti socio-economici inferiori e in quelli con livelli inferiori di conoscenze nutrizionali.” Ducrot P, Mejean C, Julia C, Kesse-Guyot E, Touvier M, Fezeu LK, Hercberg S & Péneau S. Objective Understanding of Front-of-Package Nutrition Labels among Nutritionally At-Risk Individuals. Nutrients. 2015 Aug; 7(8):7106-25
E l’applicazione del Nutri-score non impedisce di attuare anche politiche di educazione alimentare o altro.
Può essere uno stimolo ad approfondire.
L’educazione alimentare dovrebbe essere una materia di insegnamento fin dalle elementari. Insegnare a capire le etichette degli ingredienti e insegnare che il cibo più attraente spesso non è il più sano, aiuterebbe a combattere l’obesità infantile e a dare vita più sana ai nostri figli.
Purtroppo , dato che i medici di famiglia sono gia’ oberati da tanti adempimenti, il problema va gestito oltre che dai primi anni di scuola anche con un contributo informativo costante del servizio pubblico; radio e tv. NOI SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO
Sono medico e quindi ho un bagaglio culturale maggiore rispetto agli altri che dovrebbero anche utilizzare un po’ del loro tempo ad informarsi su fonti serie di : ANTIAGGLOMERANTI, RADON, ACRILAMMIDE, FTALATI , INQUINAMENTO INDOOR E LE VARIE LEGGENDE METROPOLITANE !!!
Non è sempre vero che gli istituti alberghieri abbiamo un ruolo prevalentemente tecnico almeno quando insegnavo all’Istituto alberghiero di Adria.
Mi potreste fare degli esempi di analfabetismo alimentare? A parte il consumo di cibo spazzatura e mode del momento?
Grazie