C’è un modo per identificare chi pesca illegalmente, almeno nelle acque dove lavorano pescherecci dotati di sistemi di geolocalizzazione: studiare i vuoti nella trasmissione dei dati e sovrapporli ad altri parametri quali la presenza di specie pregiate e protette. I pescherecci che aggirano limitazioni e divieti, infatti, molto spesso cercano di rendersi invisibili spegnendo gli strumenti di bordo e, in particolare, il sistema AIS (da Automatic Identification System) ma questo genera anomalie nei dati che segnalano che qualcosa non è andato come previsto. Ed è proprio analizzando i dati che i ricercatori dell’Institute of Marine Science dell’Università della California di Santa Barbara e di altri atenei statunitensi hanno individuato le zone più a rischio, e illustrato quanto scoperto in un dettagliato rapporto pubblicato su Science Advances.
Grazie all’ausilio di un sistema di intelligenza artificiale i ricercatori hanno analizzato 3,7 miliardi di segnali provenienti da tutto il mondo in tre anni, tra il 2017 e il 2019, e hanno individuato i Paesi le cui flotte hanno avuto i comportamenti più sospetti, in base alla bandiera di appartenenza. Nella classifica troviamo in testa la Cina e Taiwan seguite, a distanza, da Spagna e Stati Uniti. Questi quattro paesi, da soli, sono stati associati all’82% delle segnalazioni a rischio, anche se è evidente che numerosi altri Paesi non hanno sistemi AIS adeguati e, di conseguenza, non riescono a tracciare le proprie imbarcazioni in modo sufficientemente attendibile. In totale, circa il 6% delle imbarcazioni che possiedono un sistema AIS ha cercato di nascondere la propria posizione per circa 4,9 milioni di ore.
Per distinguere tra lo spegnimento volontario indotto da cause giustificabili quali il timore per la presenza di pirati o il desiderio di non rivelare ai concorrenti la posizione esatta di una zona pescosa, e quello doloso, gli autori hanno considerato sospetto un silenzio che si è protratto per più di 12 ore, in un raggio di 50 miglia dalla costa dove il segnale è buono. In tutti i casi in cui si sono determinate situazioni di questo tipo, il “buco” AIS è stato considerato causato o da sconfinamento in acque per le quali non si hanno i permessi, anche di Paesi diversi, pesca illegale per quanto riguarda le specie o – altra pratica vietata ma diffusa – da scambio di pescato effettuato al largo, lontano da occhi indiscreti. A conferma dei sospetti, è poi emerso che le zone dove il fenomeno è più frequente sono anche, quasi sempre, quelle in cui c’è molto pesce, ma sono attive anche limitazioni e divieti. Le prime quattro sono risultate essere le acque prospicienti la costa argentina (16% dei silenzi), quelle dell’Oceano Pacifico Nordoccidentale (13%), quelle confinanti con la zona di esclusiva pertinenza dell’Africa Occidentale (8%) e con quelle attorno all’Alaska (3%). A parte quest’ultima, le altre tre sono aree già note per l’elevato rischio di pesca illegale, dalle quali, secondo un articolo di Nature che illustra lo studio, provengono grandissime quantità di pesce, a fronte di controlli e in generale di una gestione assai carente.
Anche il tipo di imbarcazione è associato al rischio di pratiche vietate. I pescherecci che hanno palamiti di superficie sono quelli che più spesso disattivano l’AIS, seguiti da quelli con sistemi di pesca specifici per tonni e calamari. Infine, c’è un altro aspetto finora poco considerato sottolineato dagli autori: le zone dove viene spento più spesso l’AIS sono anche quelle note per il traffico di esseri umani e per pratiche che possono essere annoverate come schiavitù. Un altro ottimo motivo per spingere i paesi a migliorare la copertura del tracciamento AIS, per poter raccogliere tutti i dati necessari e avviare le relative contromisure a livello nazionale e internazionale.
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Giornalista scientifica