Aggiornato il 28 novembre 2022 con la risposta di TÜV AUSTRIA ITALIA Blu Solutions S.r.l.
La plastica cosiddetta compostabile di fatto lo è pochissimo, se il compostaggio è affidato ai privati cittadini. Le informazioni presenti, veicolate dalle etichette e dalle diciture stampate, generano infatti una grande confusione che, a sua volta, provoca un utilizzo poco corretto e, in molti casi, spinge i consumatori a smaltire le plastiche nei rifiuti indifferenziati, vanificando così ogni sforzo.
Il sostanziale fallimento del compostaggio domestico è stato certificato da un grande studio chiamato The Big Compost Experiment, tuttora in corso, lanciato dallo University College di Londra, in Gran Bretagna, paese dove moltissimi privati dispongono di sistemi per il compostaggio da utilizzare per concimare i giardini, altrettanto diffusi.
Per analizzare il comportamento dei singoli consumatori, i ricercatori hanno reclutato 9.700 persone residenti in tutto il paese, e le hanno sottoposte a un test in tre fasi, protrattosi per 24 mesi. Nella prima, i partecipanti sono stati invitati a rispondere a un questionario che esplorava le loro conoscenze in tema di plastiche compostabili e biodegradabili, e sulle differenze tra le due tipologie, sui metodi di compostaggio domestico, nonché sulle proprie abitudini. Nella seconda, a tutti è stato chiesto di effettuare il compostaggio domestico seguendo specifiche istruzioni, iniziando dal riconoscimento del tipo di plastica da smaltire, e poi tenendo il conto di ciò che immettevano, fotografando il risultato e caricando alcuni semplici dati in una specifica piattaforma: richieste assecondate da oltre 1.600 di loro. Nella terza, coloro che avevano provato il compostaggio sono stati invitati a verificare, dopo i tempi consigliati, che cosa era successo nei propri bidoni e, in particolare, a segnalare se erano rimaste tracce della plastica immessa, e che tipo di organismi avesse colonizzato il contenitore.
Come illustrato su Frontiers in Sustainablity, i risultati sono stati deludenti, e di certo non per colpa dei volenterosi partecipanti. Infatti, dai questionari è emersa una generale inclinazione a smaltire correttamente le diverse plastiche e, quando possibile, a farle entrare nel riciclo, nella degradazione sostenibile o in quello del compostaggio, ma anche tutta l’incertezza su come procedere. Incertezza motivata: in un campione di 50 diversi tipi di plastiche e diciture, il 46% non recava alcuna scritta specifica o certificazione sulla possibilità di compostaggio domestico, e solo il 14% mostrava una certificazione di possibilità compostaggio industriale. Questi primi dati hanno mostrato subito quanta strada si debba ancora fare prima di arrivare a un compostaggio domestico corretto e significativo, ma anche come le carenze ci siano anche per le bioplastiche destinate ai circuiti industriali.
Poi, nelle fasi successive, è emerso un dato forse ancora più preoccupante: il 60% delle plastiche teoricamente certificate per il compostaggio domestico e così smaltite, in realtà non lo erano affatto, perché anche dopo gli intervalli di tempo previsti se ne ritrovavano quantità significative nei bidoni, tracce documentate da molte foto dei partecipanti. Ma quelle plastiche, se non sottoposte a ulteriori passaggi, vanno direttamente nel terreno, con esisti disastrosi.
Un aspetto più positivo è stato invece quello delle specie che colonizzano gli stessi: i partecipanti ne hanno segnalate molte, dai vermi ai pidocchi, dai funghi a insetti di vario tipo, per un totale di almeno 14 specie presenti: i bidoni per il compostaggio, se non altro, favoriscono la biodiversità.
La questione principale, comunque, rimane: il compostaggio domestico di questi imballaggi, così com’è organizzato oggi (in Gran Bretagna, ma negli altri Paesi europei la situazione non è molto diversa) non può funzionare e, anzi, può essere dannoso. Meglio quindi affidare le plastiche compostabili e i numerosi prodotti che non possono entrare nelle filiere del riciclo perché contaminati quali le bustine di tè, gli involucri del fast food e così via, all’utilizzo industriale, perché nei biodigestori, almeno in teoria, ci dovrebbero essere dei passaggi di purificazione per giungere a un compost realmente privo di plastiche.
La speranza è poi quella che si riveda tutto il ciclo, che può essere realmente efficiente solo se controllato in ogni passaggio, e se i cittadini dispongono di informazioni in etichetta, sulle confezioni ma fornite anche attraverso altri materiali esplicativi su come procedere correttamente.
Inoltre, sarebbe opportuno introdurre procedure standardizzate a livello internazionale, in previsione dell’entrata in vigore di diverse leggi nazionali che hanno fissato al 2025 la data in cui la plastica monouso sarà definitivamente bandita, e il 100% delle plastiche utilizzate sarà (o dovrebbe essere) riciclabile, riusabile o compostabile.
Al momento, l’obbiettivo sembra più che lontano: secondo l’ultimo rapporto dell’OCSE, dello scorso febbraio, negli ultimi 30 anni la produzione è quadruplicata, e oggi solo il 9% dei rifiuti di plastica è riciclato, mentre il 50% finisce ancora in discarica, il 22% sfugge al sistema di raccolta dei rifiuti e il 19% va nei termovalorizzatori.
Di seguito pubblichiamo la risposta di TÜV AUSTRIA ITALIA Blu Solutions S.r.l.
TÜV AUSTRIA è un gruppo di organismi imparziali e indipendenti fornitori di numerosi servizi in ambito Testing, Ispezione e Certificazione. Tra i numerosi servizi proposti rientra anche quello della certificazione in ambito di conformità ambientale quali OK compost, OK biodegradable e OK biobased. Uno degli obbiettivi di TÜV AUSTRIA è quello di assicurare credibilità e sensibilizzare la collettività sul tema della biodegradabilità e compostabilità al fine di proteggere l’ambiente e preservare le risorse ambientali.
La biodegradabilità non deve mai essere una scusa per l’abbandono sconsiderato dei rifiuti ed è un tematica importante che richiede una presentazione accurata, attenta e responsabile per il bene dell’ambiente in cui viviamo. A tal proposito, in riferimento allo studio ‘’The Big Compost Experiment’’ lanciato dallo University College di Londra, il nostro esperto e presidente del Comitato di Certificazione, Ing. Philippe Dewolfs, ha pubblicato una comunicazione che chiarisce ed illustra la nostra posizione in merito a detto studio. Leggi qui il comunicato.
A Seguire risponde l’autrice, Agnese Codignola
Frontiers in Sustainability è una prestigiosa rivista scientifica che non pubblica studi sociali qualitativi. Il lavoro è pieno di numeri, non di valutazioni sociologiche, e riguarda la sorte dei sacchetti in una situazione di real life, e non come si sono comportati i consumatori. I risultati analizzati sono stati quelli dei campioni di oltre 1.300 partecipanti, e non 50! Ciò detto, sicuramente c’è anche una responsabilità dei consumatori, che comunque erano stati istruiti, erano ben disposti e prendevano parte a un grande esperimento di popolazione patrocinato da un’università. Il segnale è che questi materiali non sono adatti al compostaggio in casa perché per esserlo bisognerebbe che tutti avessero un comportamento perfetto. Meglio avviarli alla raccolta dell’umido. Poi certo in laboratorio i sacchetti sicuramente funzionano, ma la vita reale è un’altra cosa…e ci si augurerebbe che si disintegrassero anche se ci sono rifiuti un po’ misti, come può accadere. Per questo motivo meglio separarli.
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Giornalista scientifica
Il problema, come al solito, è che vengono prese misure di facciata, politiche o economiche per favorire questo o quel gruppo di pressione del momento o chi ha finanziato maggiormente chi prende le decisioni.
Le 9700 persone che hanno partecipato al test, lo avrebbero fatto volentieri anche prima, a costo prossimo a zero, permettendo di prendere misure più ragionevoli e lungimiranti.
È evidente che per chi ha legiferato per mettere sul mercato decine di plastiche “compostabili”, l’ambiente non era la priorità.
Condivido. Prima di prendere delle decisioni – peraltro impegnative anche economicamente – la popolazione va coinvolta e i test vanno fatti prima.
Trovo molto interessante l’argomento, visto anche che ci fa impazzire. Vi racconto cosa mi è successo.
Da un paio di settimane ho iniziato a prendere le arance Navel in rete. Al primo acquisto rilevo, con soddisfazione, che vi è scritto “confezione differenziabile” indicando che una parte (PAP 22) è smaltibile nella carta, in sostanza quella esterna dove ci sono le stampe. In precedenza era di plastica. Ve la faccio breve: non sono in alcun modo riuscito a separare la carta dal resto, pur seguendo le varie freccette di dove avrei dovuto strappare. Addirittura, non volendo buttare la parte cartacea nella plastica, ho dovuto mettere la confezione in acqua per togliere la carta a forza di abrasione con le dita… Si tratta di arance di marca Oranfrizer, nota, ve la cito perché può darsi che la Redazione nelle sue spese possa trovarla e testarla a conferma di quanto scrivo. In questo momento ho anche una rete di arance Navel di marca Colleroni anch’essa con carta, e l’impressione è che siano come al caso precedente.
A seguire invierò alla Redazione due foto delle confezioni citate, e se vi serve sono disposto a mandarvi a mie spese per posta le due confezioni per verificare.
Già dobbiamo stare dietro a leggere le illeggibili etichette per evitare le varie trappole da voi evidenziate in tanti articoli, ora dobbiamo anche andare fuori di testa per stare dietro alle varie novità delle confezioni riguardo lo smaltimento, con addirittura casi come questi di differenziazione impossibile! Almeno non ci fosse l’inflazione… Saluti
Io ho avuto esperienze analoghe con diversi imballaggi che riportavano nel dettaglio la destinazione delle singole parti ma queste erano di fatto non separaibili senza attrezzi, rischio di ferirsi, e in tempi ragionevoli.
Ad esempio un noto yogurt che vanta un imballaggio totalmente riciclabile ha l’etichetta (carta) così ben incollata al bicchierino (plastica) che non si stacca neppure con l’acqua calda, mentre la confezione di un piatto pronto (olive condite) richiede unghie, forbici, e almeno 5 minuti per riuscire a separare (a pezzetti!) il guscio di cartone dal contenitore interno (plastica).
Ma, salvo virtuose eccezioni, in genere gli imballaggi multicomponente rispettano formalmente la riciclabilità ma in realtà almeno un paio dei loro componenti sono così ben uniti tra loro che si finisce per rinunciare, buttare il tutto nell’indifferenziato, e che vadano sulla forca!
Se poi ci aggiungiamo che ogni consorzio ha le sue regole, in un comune hai il contenitore per vetro e lattine e in quello confinante il metallo va da solo e il vetro con la plastica, l’involucro del tetrapack va nella carta in uno e nell’indifferenziato nell’altro, nel bidone giallo carta nel primo, plastica nel secondo… e via con la italica creatività che fatalmente induce in errore il distratto e invoglia a buttare nell’indifferenziato il pigro.
Anche per me stessa esperienza: vassoi di carne che si pregiano di essere al top per ecologia e sostenibilità dell’imballaggio e poi nei fatti i componenti non si separano.
io sarei del parere di disincentivare le confezioni di plastica, provenienti dai fossili, preferendo materiale compostabile, proveniente da fibre naturali, e, sulla via di una auspicabile celere conversione, quantomeno disporre di confezioni monomateriale.
Almeno leggere l’articolo prima di commentare..no eh ? Sei abbondantemente fuori tema.
Buongiorno,
vivo in città e non ho la possibilità di fare compostaggio domestico, ma le plastiche compostabili possono essere comunque riciclate nei bidoni dell’organico? Mi capita spesso di leggere così in etichetta e non vorrei sbagliarmi…
Il contenuto dei bidoni cittadini dell’organico, viene gestito da impianti di compostaggio industriale che trattano anche tutti quei materiali certificati in etichetta come “compostabili”.