Le diete basate sul digiuno intermittente, cioè sull’idea di limitare l’assunzione di cibo solo a certe ore della giornata, intervallate da lunghe ore di digiuno, sono diventate molto popolari grazie ad attori come Nicole Kidman, Jennifer Aniston e Benedict Cumberbatch. Eppure potrebbero non avere alcun esito durevole e quindi rivelarsi inutili. Questo, almeno, è quanto suggerisce uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, una delle riviste mediche più prestigiose al mondo, condotto scrupolosamente dai ricercatori della Tulane University School of Public Health and Tropical Medicine di New Orleans, in collaborazione con i colleghi del Nanfang Hospital della Southern Medical University di Guangzhou, in Cina. I ricercatori hanno selezionato un campione di 139 persone obese, e le hanno sottoposte a una restrizione calorica durata 12 mesi.
I partecipanti sono stati suddivisi in due sottogruppi: al primo è stato chiesto di mangiare solo tra le 8 e le 16, mentre al secondo non sono state poste limitazioni particolari collegate al tempo. Tutti gli uomini hanno assunto tra le 1.500 e le 1.800 calorie al giorno, le donne tra le 1.200 e le 1.500. Il parametro principale monitorato è stato quello del peso, e alla fine della sperimentazione coloro che avevano seguito il digiuno intermittente avevano perso otto chili, gli altri 6,3: una differenza non statisticamente significativa. Ma ciò che ha rafforzato ulteriormente l’inconsistenza dell’effetto del digiuno sono stati i parametri secondari ovvero la circonferenza della vita, il grasso corporeo, l’indice di massa corporeo, la massa magra, i valori di pressione sanguigna e quelli di diversi indici metabolici: tutti indistinguibili, nei due gruppi, così come gli eventi negativi riportati dai partecipanti.
Anche se evitare di mangiare per diverse ore consecutive (soprattutto notturne) può avere conseguenze positive sul metabolismo, perché aiuta a mantenere i corretti ritmi circadiani, e ad avere uno stile di vita più sano e regolare, non sembra che ciò si traduca in effetti misurabili, almeno nelle persone obese che devono dimagrire. Gli studi che ne hanno suggeriti alcuni sono stati per lo più di tipo osservazionale, mentre altre ricerche più simili a quella appena resa nota erano già giunte alla stessa conclusione. Per esempio, nel 2020 è stato pubblicato su JAMA Internal Medicine (altra rivista considerata più che affidabile) quanto emerso in un trial randomizzato che per tre mesi ha coinvolto 116 persone in forte sovrappeso o obese, invitate a mangiare in qualunque momento desiderassero, ma attenendosi a tre pasti quotidiani, oppure solo tra le 12 e le 20, una formulazione molto popolare, che prevede di astenersi dal consumo di cibo durante il mattino, ma criticata da molti nutrizionisti che sostengono la grande rilevanza della prima colazione. Anche in quel caso i primi avevano perso in media 0,68 kg, gli altri 0,94: una differenza non significativa. E lo stesso si è visto nei parametri metabolici come l’emoglobina glicata (misurata per controllare l’andamento della glicemia), nell’indice di massa corporeo, nella massa magra e in quella grassa e in altri indici.
In generale, diversi esperti ritengono che per perdere peso a contare di più sia ridurre l’apporto calorico e migliorare la qualità della dieta e le abitudini quotidiane: il successo del digiuno intermittente risiederebbe nella facilità di metterlo in pratica, e nella pubblicità fatta da persone molto famose.
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Giornalista scientifica
Forse è un metodo che ha delle valenze di altro genere, non collegate al problema sovrappeso/obesità. Che si conferma essere, anche con questo studio, una sindrome multidimensionale, caratterizzata da pluricausalità e multifattorialità.