Nel Regno Unito le confezioni degli alimenti per bambini fino a un anno contengono, in media, nove diciture promozionali. Scritte finalizzate ad amplificare il cosiddetto effetto healthy halo, cioè l’idea – di solito ingiustificata – che il prodotto, per i motivi più vari, possa avere un effetto benefico sulla salute. Ma questo comportamento disinvolto delle aziende, pur essendo al momento legale (più che altro perché non regolamentato), ha come unico risultato la confusione crescente dei genitori, spinti ad acquisti motivati sempre più dalla pubblicità, e sempre meno dalla realtà.
È un atto d’accusa molto duro quello contenuto nell’indagine pubblicata sugli Archives of Disease in Childhood dai ricercatori dell’Università di Glasgow, in Scozia: duro e documentato. Per capire in che misura i produttori spingessero sull’effetto healthy halo, gli autori hanno effettuato un’analisi a tappeto, controllando i prodotti venduti tra giugno e settembre 2020 nei negozi e online da sette tra le più grandi catene di distribuzione presenti sul territorio britannico (Aldi, Asda, Lidl, Tesco, Sainsbury’s, Waitrose, Morrisons) e Amazon. I ricercatori hanno raccolto tutte le informazioni disponibili sui prodotti, compresi i claim salutistici e quelli esplicitamente pubblicitari, suddividendoli in quattro categorie: associati alla salute, alle caratteristiche nutrizionali, alla composizione o solo al marketing. In quest’ultimo caso le diciture sono state a loro volta suddivise in base a: autosvezzamento, convenienza, raggiungimento degli obiettivi nutrizionali, la ‘benedizione’ di qualche società scientifica o esperto, ideali di alimentazione, stili di vita, gusto, qualità del prodotto e altro.
In totale sono stati analizzati 734 prodotti di 34 marchi, il 99% dei quali aveva una dicitura classificabile come pubblicitaria, il 97% una sulla composizione e l’85% una nutrizionale, mentre solo il 6% recava un richiamo diretto alla salute, per un totale di oltre 6.200 claim. Ciò significa che, in media, ciascuno dei prodotti ospitava ben nove diciture, cinque delle quali classificabili come pubblicitarie (soprattutto relative al gusto e alla palatabilità), con picchi, in alcuni casi, di 17 frasi diverse.
Per quanto riguarda la composizione, la parte del leone la ricoprivano le diciture legate alla produzione di tipo biologico e, in misura di poco inferiore, quelle che sottolineavano l’assenza o la riduzione di qualche cosa (di solito zuccheri o sale). Ancora: più di sette prodotti su dieci avevano scritte relative all’autosvezzamento, quota che negli snack arrivava al 99%, anche se è quantomeno discutibile il fatto di abituare i bambini così piccoli a questi alimenti. Infine, solo il 16% dei prodotti secchi recava frasi salutistiche (nelle quali il ferro era l’argomento dominante).
Oltre ad affermazioni non giustificate, ciò che ha preoccupato gli autori è stata la presenza di affermazioni volutamente ambigue quali, per esempio, ‘al gusto di verdura’, che spesso mascheravano prodotti con minime percentuali di verdura e frutta, che abituano i bambini al gusto dolce e favoriscono l’obesità e le carie senza che i genitori ne abbiano contezza.
Critici, inoltre, i riferimenti alle cinque porzioni consigliate di frutta e verdura, perché, in realtà, sono previste solo dopo i due anni, essendo il periodo precedente caratterizzato da regole proprie. Ancora più deprecabili, poi, quelli a endorsement di associazioni medico-scientifiche o di esperti, sempre piuttosto vaghi e poco controllabili.
La conclusione non può che essere un caloroso appello affinché si pongano dei limiti severi a ciò che si può o meno scrivere sulle confezioni di alimenti per neonati. È anche necessario cambiare le linee guida, le leggi e le norme per proteggere i genitori da un marketing così aggressivo e quasi sempre infondato, come del resto chiede di fare l’Oms, suggerendo di attenersi alle sole caratteristiche nutrizionali.
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Giornalista scientifica