Una trappola, una norma capestro, un provvedimento che rischia di compromettere il futuro del biologico: sono solo alcune delle critiche alla bozza del Decreto ministeriale sulle contaminazioni accidentali dei prodotti biologici, che arrivano dal mondo ambientalista e non solo. Il timore è che il provvedimento comprometta un settore importante per il nostro Paese regalando un ingiusto vantaggio all’agricoltura convenzionale, proprio quando il biologico italiano, con il 19,8% di superficie agricola certificata, avvicina il nostro Paese all’obiettivo del 25% entro il 2030 fissato dall’Europa con le strategie “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”.
Il biologico piace ai consumatori italiani: lo confermano i dati Nomisma secondo cui nel 2023 le vendite di alimenti biologici hanno raggiunto quasi 5,4 miliardi di euro, con un incremento del 9% a valore rispetto all’anno precedente e del 4% considerando i primi sei mesi del 2024 in GDO.
Un problema per aziende e consumatori
Il provvedimento potrebbe mettere in crisi i produttori, oltre a risultare poco chiaro per i consumatori. In discussione in particolare è l’articolo 3 del decreto, non tanto nella parte che farebbe scattare automaticamente l’obbligo d’indagine da parte degli enti di certificazione in caso di contaminazioni inferiori o uguali a 0,01 mg/Kg – la quantità comunemente definita come “zero tecnico”- per una sola sostanza non ammessa, quanto perché se l’organismo di controllo non riesce a individuare sia la fonte che la causa della contaminazione, l’integrità del prodotto biologico dovrebbe ritenersi sempre compromessa.
Soprattutto nei comprensori specializzati nella coltivazione di un singolo prodotto, la causa è in genere individuabile nella deriva dei trattamenti effettuati da aziende convenzionali vicine, ma non è quasi mai possibile determinare la fonte esatta, cioè da quale campo arrivi. Col risultato che, oltre a dover buttare il raccolto, l’agricoltore biologico rischia di subire l’imposizione di un nuovo periodo di conversione. “Oltre al danno, la beffa”, osserva Roberto Pinton, esperto di diritto alimentare e di agricoltura biologica.
L’articolo 5 del provvedimento, invece, secondo alcune associazioni sarebbe in parziale contraddizione con quanto decretato in precedenza, e aprirebbe la porta a un uso indiscriminato di alcuni pesticidi: “in realtà non è così” spiega l’esperto, “il testo è contorto, ma la tolleranza non supera l’1% del LMR, il limite di residui tollerato in agricoltura convenzionale, sempre che l’indagine abbia stabilito che si tratti di contaminazione accidentale“. Resta però il rischio che le aziende biologiche, in particolare le più piccole che hanno meno strumenti per limitare i danni, finiscano col non essere a norma per colpa di terzi: “Se non si individua esattamente da quale confinante arriva la deriva, basteranno tracce non quantificabili per decertificare il prodotto”, prosegue Pinton.
Il mondo del biologico
Anche Bioland Südtirol, la principale associazione di agricoltori biologici dell’Alto Adige (con oltre mille soci, prevalentemente piccole aziende di montagna) ha espresso in questi giorni la sua preoccupazione sottolineando che la tutela dei consumatori non deve essere a spese degli agricoltori biologici. La soglia di 0.01 mg/kg per i contaminanti, si legge ancora nella nota, non è uno standard europeo, ma è stata adottata solo da Italia e Belgio, che non possono imporla ai prodotti degli altri Paesi UE: così in pratica penalizzano solo i loro agricoltori.
Il punto più discusso del provvedimento riguarda proprio la contaminazione accidentale, “che è definita tale quando l’operatore ha preso ogni ragionevole misura per evitarla”, precisa l’esperto, “in questo caso, però non vale il principio del ‘chi inquina paga’ anzi, sono i coltivatori biologici che devono investire denaro per impedire le contaminazioni”, per esempio mettendo barriere meccaniche, come filari di alberi, per arginare l’azione del vento che trasporta i pesticidi, o decidendo di non certificare come biologica la porzione di raccolto che si trova al confine con le coltivazioni convenzionali.
Contaminazioni accidentali
La norma poi capovolge l’onere della prova, in contraddizione con la legge e anche con il dettato costituzionale: “Non sono le autorità a dover dimostrare il dolo, ma spetta agli agricoltori dimostrare che le contaminazioni non sono intenzionali, e se c’è un sospetto, la certificazione del prodotto può essere sospesa in attesa di chiarimenti”, prosegue Pinton, “è già successo in passato, con gravi danni per le aziende ortofrutticole i cui prodotti ovviamente non possono attendere per anni la decisione delle autorità”.
Il decreto poi presenta alcune debolezze tecniche, “per esempio dove all’articolo 3, si definisce non conforme il campione che presenti più di un residuo”, prosegue l’esperto: “gran parte dei fitosanitari, infatti, contiene più principi attivi per sfruttarne l’azione sinergica – o per consentire ai produttori convenzionali di rispettare le quantità massime per ciascun principio attivo, senza preoccuparsi dell’effetto cocktail – per cui è frequente che i residui di un solo trattamento contengano più di un principio attivo, mettendo automaticamente fuori legge il prodotto biologico che ne contiene tracce”.
Limiti assurdi
Quando all’articolo 5, è probabile che debba essere modificato. “Non è in contestazione il fatto che presenze anche in traccia possano dare il via a indagini ufficiali, ma la scala dei limiti introdotta dall’articolo è del tutto fantasiosa”, osserva Pinton. Secondo la bozza di decreto infatti non si potrebbe vendere come biologico un prodotto che presenti una contaminazione accertata come accidentale e tecnicamente inevitabile superiore a 0,01 mg/kg per sostanze che in agricoltura convenzionale hanno un LMR fino a 10 mg/kg (in altre parole il prodotto biologico non potrebbe contenere più di un millesimo della quantità di sostanze tollerate in agricoltura convenzionale). Per le sostanze per cui in agricoltura convenzionale è tollerato un residuo tra 10 mg/kg e 100 mg/kg, invece, la soglia per la decertificazione di un prodotto biologico potrebbe arrivare a 1 mg/kg (un centesimo delle sostanze tollerate in agricoltura convenzionale).
Le reazioni più dure sono arrivate dal WWF e dalla rivista Il Salvagente, che hanno anche criticato alcune associazioni rappresentative del biologico, come FederBio, AIAB, AnaproBio, ConfagriBio che hanno assunto posizioni più interlocutorie nei confronti del provvedimento. “Qualche organizzazione è particolarmente attenta a non assumere posizioni critiche nei confronti del ministero“, osserva Pinton. “Da qualche tempo il mondo del biologico si sta dividendo, tra chi lo vede come un settore produttivo tra gli altri, e chi invece lo considera come un modello culturale e tecnico da promuovere per cambiare radicalmente un’agricoltura in ritardo coi tempi”.
Governo contro biologico
E il nuovo decreto non è il primo tentativo di penalizzare il biologico: pensiamo alla legge del 2021 che prevede la possibilità di costituire un organismo interprofessionale composto da agricoltori, aziende di trasformazione e distributori, che potrebbe fissare prezzi e quote di produzione e imporre il pagamento di contributi anche per le aziende non aderenti”, ricorda Pinton. In generale, le ultime norme adottate sono un elenco di misure sanzionatorie che sembrerebbero avere l’intento di frenare la conversione al biologico mentre sarebbe importante promuovere i consumi, “perché su questo versante i dati sono meno incoraggianti rispetto a quelli sulla produzione”, osserva l’esperto, “e investire nella formazione degli operatori e dei tecnici che dovranno fornire loro assistenza “.
Intanto, lo scorso settembre il ministero ha emanato il bando per l’ideazione del marchio biologico italiano, fortemente voluto da Coldiretti “nonostante un provvedimento del genere, che punta alla promozione di un marchio nazionale, sia in contrasto con le normative europee e sia stato bocciato da uno studio del massimo istituto nazionale di ricerca socio-economico in campo agricolo-industriale (l’Istituto nazionale di Economia agraria INEA ora incorporato nel CREA) “, ricorda Pinton.
Un problema ambientale
Il problema principale resta quello dei residui inquinanti dispersi nell’ambiente, deve essere affrontato a livello globale e non con provvedimenti punitivi per chi lavora nel biologico. “Oggi i dati ISPRA dimostrano una presenza massiccia e in costante crescita di residui di pesticidi e altre sostanze nelle acque, e di conseguenza nel suolo, che rendono impossibile evitare del tutto la presenza di residui”, sottolinea Pinton. Uno studio austriaco realizzato in Val Pusteria mostra che i residui di pesticidi arrivano trasportati dal vento anche a 2400 metri di altitudine, dove certamente non ci sono frutteti: “Invece di introdurre norme che penalizzino gli agricoltori biologici che s’impegnano a non aggiungere inquinamento a inquinamento”, sottolinea l’esperto, “serve un serio pacchetto di misure per abbattere le 122.000 tonnellate di fitosanitari sparse ogni anno dall’agricoltura convenzionale sull’80% dei campi italiani”.
Cosa succederà adesso? Per ora si tratta solo di una bozza di decreto, molto debole dal punto di vista tecnico “che sposta tutta l’attenzione sui residui quando anche il regolamento sugli alimenti per bambini e addirittura le norme nazionali sull’agricoltura integrata prendono atto dell’inevitabilità tecnica di contaminazioni sotto 0.01 mg/kg”, ricorda Pinton, “sono in molti a pensare che questo decreto darà lavoro agli avvocati”. Intanto la parlamentare Eleonora Evi (Pd) ha presentato un’interrogazione sul tema e potrebbe esserci una reazione dell’Unione europea visto che questo decreto non esclude i prodotti provenienti da altri paesi U.E., ”e che questa materia è disciplinata a livello europeo”, conclude Pinton, “ senza dimenticare che i precedenti decreti italiani sul biologico non sono stati notificati a Bruxelles come previsto dalla normativa, diventando così inapplicabili. Un processo legislativo che fa davvero cadere le braccia”.
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giornalista scientifica
Purtroppo questo governo è in controtendenza su tutto, non ne fa UNA giusta, nella Repubblica del Congo sono messi meglio di noi.
Al Sig. Pinton chiedo: quante strutture pubbliche come mense scolastiche, Ospedali, RSA utilizzano i prodotti bio secondo il Decreto dei CAM del 2020 ?
In un Pasese normale, logica vorrebbe che a rispettare la norma fosserro tutte le amministrazioni pubbliche.
A naso (in genere non mi piace esprimermi “a naso”, ma manca un censimento ufficiale e bisogna arrangiarsi) ho l’impressione che il settore sanitario e assistenziale sia più recalcitrante ad adeguarsi, ma è un’impressione e sarò ben lieto di ricredermi se ci sono evidenze diverse.
Neanche per le mense scolastiche esiste un censimento ufficiale.
C’è, però, il Fondo mense scolastiche biologiche, che eroga alle Regioni (affinchè lo ripartiscano tra i Comuni) un contributo commisurato al numero dei beneficiari del servizio di mensa scolastica biologica.
Per aver accesso al contributo, il cui scopo è ridurre il costo a carico delle famiglie (per l’86%) e realizzare attività di informazione e promozione (per il 14%), le stazioni appaltanti (Comuni, unioni di Comuni, Comunità montane) devono registrarsi su un’apposita piattaforma informatica.
Alla data del 31 marzo 2024 le amministrazioni hanno dichiarato l’affidamento del servizio di mensa scolastica biologica (con tanto di documentazione di gara e relativi contratti) per un numero di 3.277 scuole e un totale di 3.647.531 pasti erogati.
Questi numeri non necessariamente rappresentano quelli totali (non è detto che tutte le amministrazioni che ne avrebbero avuto diritto si siano registrate sulla piattaforma ministeriale), ma rappresentano quantomeno una base minima certa di valutazione.
Trova il DM di riparto del fondo, con tutti i dettagli territoriali, a pagina https://shorturl.at/muTk7
Buongiorno
Una domanda : la passata Nichel free e biologica di PRIMA OP BIO azienda di Rignano ( Fg) che si trova ormai in numerosissimi supermercati si puo’ definire NICHEL FREE come scritto sull’etichetta o sarebbe meglio di basso contenuto di Nichel. Perche’ un contenuto inferiore a 0,03 mg/kg di nichel significa che non ne e’ completamente free. Come al solito in Italia si puo’ scrivere quello che si vuole. Ma per un intollerante al Nichel e’ importante
Lo zero “secco” non è un concetto serio quando si parla di analisi.
Per farla facile: esiste il LOQ (limite di quantificazione), che è la concentrazione minima di una sostanza che può essere quantificata con una accuratezza accettabile (precisione, incertezza di misura) applicando un determinato metodo analitico.
Se peso un cucchiano di zucchero con una pesa a ponte per camion con una divisione di 5 kg, avrò come risultato “zero” (eppure ho proprio lì davanti a me il cucchiaino di zucchero), il risultato cambia se uso una bilancia analitica con divisione 0.1 mg, ma anche una buona bilancia da cucina.
Tutto sta, insomma, nel metodo e nello strumento che utilizzo.
Per questo, invece di dire “zero”, la dizione concettualmente corretta è “inferiore al limite di quantificazione”, dato che, magari, utilizzando un altro metodo l’analita potrebbe essere quantificato.
E’ per questo che i prodotti “free from” in genere indicano il range: chi vanta il “residuo zero” spiega in etichetta “*residui di pesticidi inferiori a 0.01 mg/kg”, chi vanta “senza lattosio” precisa che il tenore di lattosio è inferiore a 0,5 g per 100 ml (sul lattosio ci sono indicazioni del ministero della Salute).
Usare come LOQ 0,03 mg/kg (cioè 3 g su 100 tonnellate di matrice previsto dal generoso standard CSQA) è un po’ come voler pesare il cucchiaino di zucchero con una bilancia a stadera: esistono schemi di certificazione sul “nickel free” (norme tecniche o disciplinari CCPB, CheckFruit, Rina, Agroqualità) che adottano come LOQ 0.01 mg/kg (cioè 1 g su 100 tonnellate di matrice).
Questi ultimi schemi non consentono di qualificare come “nickel free” un prodotto con nickel sopra 0,01 ppm, al più consentirebbero un più modesto “a basso contenuto di nickel”.
Detto questo, dato che per la dichiarazione di assenza del nickel la normativa non stabilisce soglie numeriche, una volta che abbia sostanziato il claim “nickel free” con il chiaro dettaglio “*nickel inferiore a 0,03 ppm” (che possiamo tradurre in “per pesare ho usato una stadera e non una bilancia di precisione”), l’etichettatura si deve ritenere conforme,
Becero populismo che attecchisce bene nell’ignoranza di troppi italiani: vi diamo il meglio! Ma il meglio è nemico del bene e alla fine compreremo bio estero (ben più contaminato che da uno 0,01 preso da una cassetta durante il trasporto, dal vento, da un uccello) o ci rinunceremo perché caro. E intanto le ditte italiane falliranno. Ma questi chi li ha votati?
Capisco la cervelloticità della norma e condivido le proteste, ma a mio avviso il problema è un altro: siamo sicuri che l’agricoltura biologica sia la strada giusta per avere cibo sano, a basso impatto ambientale e accessibile a tutti ? Io ho dei dubbi. Se riduco l’impiego di concimi e fitofarmaci (si chiamano così, non pesticidi) avrò una produzione unitaria più bassa e quindi per avere le stesse quantità di prodotto, dovrò mettere a coltura più terra. Se è coltura irrigua, userò più acqua, perchè le perdite irrigue sono proporzionali alla superficie irrigata, non alla produzione. Idem le operazioni colturali. Non è che si debba concimare e trattare come se non ci fosse un domani, ma di usare concimi di sintesi e fitofarmaci in funzione delle curve di risposta. Vero che la produzione di fitofarmaci ha un costo ambientale, ma mi riduce anche la presenza di micotossine. Usare etichette (biologico o convenzionale) non aiuta, dovremmo fissare alcuni punti fermi, es. la rotazione con leguminose in modo da ridurre l’uso di concimi azotati, la cui sintesi è assai energivora, oppure un livello massimo di concimazione per ogni coltura e sostenere economicamente solo le aziende agricole che accettano questi disciplinari. Nelle produzioni animali lo si sta facendo con l’introduzione, su base volontaria, del veterinario aziendale e del SNQBA (Sistema Nazionale Qualità Benessere Animale).