I consumatori sono sempre più attenti alla qualità del cibo che portano in tavola e consapevoli del rischio connesso alle sue contaminazioni. Per questo chiedono alimenti freschi, nutrizionalmente sani e, se possibile, a filiera corta, controllata e certificata. «Garantire la sicurezza dei prodotti in commercio spetta agli enti di farmacosorveglianza – spiega Giorgio Fedrizzi, direttore del Dipartimento per la sicurezza alimentare dell’Istituto zooprofilattico di Lombardia ed Emilia-Romagna –. Questi enti non hanno solo il compito di rilevare eventuali eccessi di molecole dannose, ma hanno anche quello di compiere una valutazione degli effetti negativi che alcune di esse possono avere a lungo termine sulla salute umana pur restando entro livelli considerati sicuri».
Al pari della frutta e della verdura non bio, della carne e del pesce provenienti da allevamenti intensivi, anche altri prodotti di origine animale sono ormai oggetto di attenzione a causa del potenziale rischio per la salute rappresentato dal fatto che possono contenere residui di farmaci veterinari. «Utilizzati in ambito zootecnico per trattamenti profilattici di gruppo con lo scopo di proteggere gli animali – continua Fedrizzi – questi agenti bioattivi potrebbero permanere nella carne, ma anche nel latte, formaggi, uova e miele, contribuendo direttamente o indirettamente a peggiorare la salute umana».
Il latte alimentare venduto dalla grande distribuzione è finito in questo senso nell’occhio del ciclone dopo la pubblicazione, avvenuta nel 2020, dei risultati di una ricerca condotta dall’Università Federico II di Napoli e dall’Università di Valencia, pubblicati sul Journal of Dairy Science. In base ai dati emersi da queste indagini, circa metà delle confezioni di latte vaccino in vendita sugli scaffali dei supermercati conteneva residui di sostanze farmacologicamente attive ad azione antibiotica e antinfiammatoria comunemente utilizzate negli allevamenti (amoxicillina, desametasone, meloxicam), a un livello di concentrazione compreso tra 0.007 e 4.53 ng/ml.
«Si tratta di un range conforme ai limiti di legge stabiliti dalla normativa comunitaria – puntualizza Fedrizzi –. Questo ha tuttavia spinto a interrogarsi sui possibili effetti che alcune sostanze potrebbero avere, anche in dosaggi molto bassi, sulla salute umana». Ats Brescia e Istituto Zooprofilattico di Lombardia ed Emilia-Romagna, con la collaborazione di imprese locali, associazioni di categoria e veterinari aziendali, hanno quindi avviato il 14 aprile 2021 un progetto pilota dal titolo “Metodo multiclasse in Lc-Hrms: un nuovo approccio analitico per la ricerca di residui di antibiotici nel latte”.
«L’idea è stata quella di mettere in atto un attento monitoraggio di tutte le fasi produttive – illustra Fedrizzi – e, soprattutto, di valutare l’evenienza che i residui di farmaci che permangono nel latte in commercio, seppur minimi, possano nel lungo periodo contribuire al disequilibrio del microbioma e al fenomeno dell’antibiotico-resistenza». Al centro del progetto c’è una nuova tecnica strumentale di rilevamento basata sulla combinazione di cromatografia liquida e spettrometria di massa ad alta risoluzione, che consente di individuare contemporaneamente l’eventuale presenza di oltre 60 molecole, tra cui diversi antibiotici (beta-lattamici, amfenicoli, chinolonici, macrolidi, pleuromutiline, penicilline, cefalosporine, sulfamidici, tetracicline, rifamicine), anche in quantità infinitesimali, fino a 100-1000 volte inferiori rispetto ai limiti previsti per legge.
«Il nuovo metodo – spiega Fedrizzi – consente di determinare con maggiore accuratezza di prima i livelli di sostanze farmacologicamente attive negli alimenti, allo scopo di ridurne ulteriormente la presenza. Ha inoltre il vantaggio di poter essere applicato non solo al latte, ma anche ad altri prodotti connessi alla zootecnica, inclusi carne, uova, miele». Le analisi condotte hanno riguardato 52 campioni di latte prelevati in due tempi (settembre e dicembre 2020) da 11 impianti e circa 150 allevamenti nel territorio della Provincia di Brescia, la prima per la produzione di latte crudo in Lombardia, regione che, da sola, copre il 40% della produzione nazionale, con 5,6 milioni di tonnellate di latte (di cui 1,5 milioni provenienti dai circa 1.200 allevamenti di bovini e 138 impianti del bresciano).
«Incrociando i risultati ottenuti con il metodo multiclasse e i dati sui consumi dei farmaci in campo zootecnico – chiarisce Fedrizzi – è stato possibile confermare l’alta qualità e la sicurezza del latte prodotto in questo territorio». Il latte italiano, in generale, si colloca ai primi posti in Europa per quanto riguarda il rispetto dei parametri previsti dai regolamenti comunitari. Il merito non è solo delle analisi svolte dalle Ats locali, ma anche del rigido autocontrollo attuato dagli stessi produttori, che ogni 15 giorni verificano parametri come cellule somatiche, carica batterica e presenza di inibenti, e dai caseifici che effettuano comunemente test rapidi per la ricerca di eventuali residui di antibiotici nel latte.
Il nuovo approccio multiclasse Lc-Hrms rappresenta un ulteriore passo avanti perché sposta il focus dal rispetto dei parametri formali all’effettiva garanzia di una maggiore affidabilità della filiera. Questa inoltre, grazie alla crescente sensibilità dei metodi di ricerca utilizzati, non assolve solo gli adempimenti previsti per legge, ma può migliorarsi con interventi per ridurre la permanenza di farmaci nel latte. «Oltre al vantaggio di poter testare la presenza di decine o centinaia di composti con una sola analisi – continua l’esperto –, questo metodo permetterà anche di rielaborare a posteriori i dati acquisiti sul campione. In sostanza: grazie alla gestione informatizzata dei dati, si potrà ripetere l’analisi anche a distanza di anni per valutare l’eventuale presenza di sostanze potenzialmente dannose non processate durante il primo test».
Lo svantaggio del nuovo metodo riguarda i costi elevati delle apparecchiature necessarie a compiere le analisi sui campioni. «Si tratta di macchinari che arrivano a costare anche 400 mila euro – conclude Fedrizzi –, ma i laboratori pubblici di controllo si stanno già attrezzando, compiendo investimenti importanti in innovazione tecnologica e questo dimostra l’attenzione del nostro Paese per la sicurezza dei consumatori».
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