La plastica che inquina gli oceani è un pericolo per tutte le specie marine. In particolare, per le tartarughe che la ingurgitano scambiandola per cibo. Ma questa non è l’unica ragione: gli habitat una volta ideali per lo sviluppo dei giovani esemplari nel tempo si sono trasformati in hotspot di inquinamento da rifiuti plastici. È la conclusione di uno studio condotto da ricercatori australiani e britannici, e pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Marine Science.
Gli scienziati hanno analizzato il contenuto dell’apparato digerente di 121 giovani tartarughe (da esemplari appena nati a quelli di dimensioni inferiori a 50 cm) appartenenti a cinque specie: verde (Chelonia mydas), Caretta caretta, embricata (Eretmochelys imbricata), bastarda olivacea (Lepidochelys olivacea) e a dorso piatto (Natator depressus). I soggetti esaminati si sono spiaggiati o sono stati catturate accidentalmente durante le attività di pesca nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, al largo delle coste australiane. I risultati rivelano che esemplari di quattro specie avevano frammenti di plastica di dimensioni superiori a 1 mm nel tratto digerente. Fanno eccezione solo le sette tartarughe embricate incluse nello studio. Sono stati trovati essenzialmente due tipi di plastica – polietilene e polipropilene – ma non è stato possibile determinarne l’origine.
Lo studio mette in luce anche un altro dato significativo: le tartarughe che vivono nell’Oceano Pacifico ingeriscono plastica più frequentemente rispetto a quelle provenienti dall’Oceano Indiano. Per esempio, l’83% delle tartarughe verdi del Pacifico conteneva plastica nel tratto digerente, con un esemplare che aveva 144 frammenti di dimensioni superiori al millimetro; di contro, solo il 9% degli esemplari dell’Oceano Indiano ne aveva ingerita, anche se in un individuo i ricercatori hanno trovato addirittura 343 pezzi. Inoltre se nelle tartarughe provenienti dal Pacifico si trovano più spesso frammenti di plastica dura, che possono derivare da un gran numero di oggetti, in quelle dell’Indiano sono più comuni le fibre, probabilmente provenienti dall’attrezzatura da pesca.
Secondo gli autori dello studio, la vulnerabilità delle tartarughe marine alla plastica è frutto di una sorta di “trappola” evolutiva. “I giovani esemplari di tartaruga su sono evoluti per svilupparsi in oceano aperto, dove i predatori sono relativamente scarsi, – spiega Emily Duncan ricercatrice del Centro di ecologia e conservazione dell’Università di Exter e prima autrice dello studio. – Tuttavia, i nostri risultati suggeriscono che questo comportamento ora li conduce in una “trappola”, portandoli in aree altamente inquinate come la Great Pacific Garbage Patch.”
Con gli habitat che per migliaia di anni ne hanno favorito la sopravvivenza trasformati in discariche di rifiuti plastici (e non solo), le giovani tartarughe, che non hanno una dieta altamente specializzata, finiscono per mangiare anche questi materiali, scambiandoli per cibo. “Non sappiamo ancora quale impatto ha l’ingestione della plastica sulle giovani tartarughe, – conclude Duncan, – ma qualsiasi perdita a questo stadio di sviluppo può avere un significativo impatto a livello delle popolazioni”
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.