etichettaProponiamo ai nostri lettori questo articolo di Silvano Toppi sulle indicazioni in etichetta apparso sul mensile La borsa della spesa, mensile dell’Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera italiana.

Forse regaleremo o ci regaleranno maglioni merinos, dalla lana molto fine e pregiata, ed è probabile che troveremo anche l’indicazione “Mulesing Free” (misteriosa per molti) per avvertirci che non si è scuoiata la pelle e la coda della zona perianale dell’animale, scorticandolo vivo con apposite tenaglie, senza anestetici, per ridurre l’infezione di larve e assicurarsi così un vello pregiato e redditizio. Forse mangeremo paté di fegato d’oca, prelibatezza francese, avvertiti che è stato prodotto con il “gavage” (ingozzamento forzato), per provocare una patologia assurda (steatosi epatica o ingrossamento del fegato), tanto assurda che la recente attualità ci informa che in California si è deciso di proibirne la vendita.

Forse i più culinariamente estrosi toglieranno dal congelatore le cosce di rana, ciò che resta di grandi stragi di batraci venuti da chi sa dove, per servirle fritte a Natale con salsa agrodolce piccante e mandorle. Forse altri, più ostentati, penseranno a borse o scarpe in pelle di coccodrillo o di serpente, allevati e massacrati nello Zimbawe per far brillare le grandi marche e sorridere mogli o amanti dei paesi ricchi.

Non è una descrizione leziosa, benché rifletta una tipologia di realtà spesso presente nella festività natalizia. Riflette l’elenco di un rapporto del Consiglio federale risalente al mese di settembre scorso, apparso sotto il titolo “dichiarazione obbligatoria dei modi di produzione”. Il quale spiega come si potrebbe migliorare la dichiarazione di alcune derrate o di alcuni prodotti animali (quelli citati, ad esempio) ottenuti secondo metodi di produzione che non rispettano il diritto svizzero, in modo particolare la legge sulla protezione degli animali, e voleva giungere, prima della fine di quest’anno, a rendere obbligatoria una “dichiarazione più trasparente sui metodi di produzione”.

Si dovrebbe riportare in etichetta il costo sociale dei prodotti

Rovesciando anche l’onere della prova: per poter introdurre dei prodotti senza dichiarazione sul mercato spetterà al produttore-venditore dimostrare la veridicità delle informazioni. C’è anche un’aggiunta da rilevare: entro il 30 giugno del 2021 il Dipartimento federale dell’Interno dovrà procedere ad un esame preliminare per rendere pure più trasparente la dichiarazione su alimenti derivanti da maiali castrati senza anestesia o di alimenti prodotti con il ricorso a pesticidi proibiti in Svizzera.

È buona e giusta l’azione che intraprende il Consiglio federale. Diventa ancor più condivisibile quando alle volte ci mostrano le immagini scioccanti degli allevamenti o delle torture inflitte agli animali. Dev’essere quindi non solo necessario ma obbligatorio informare il consumatore su che cosa succede e come avviene la produzione di quel determinato bene, alimentare o d’abbigliamento, che ha come “materia prima” un animale. Del quale si deve tutelare “la dignità e il benessere”, come impone la legge  federale.

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C’è la necessità di una maggiore trasparenza, anche nei confronti del consumatore, sul trattamento dell’uomo-produttore.

Questa è una domanda successiva che ci si può porre. E non solo per una questione di logica e di opportunità umane. C’è, insomma, la necessità di una maggiore trasparenza, anche nei confronti del consumatore, sul trattamento o, brutta parola, “sull’uso” che si fa dell’uomo-produttore. Un noto ricercatore e professore di economia, Brian Bill, ha sollevato recentemente questo tema con una proposta concreta: “sull’etichetta di ogni prodotto, a lato del prezzo di acquisto, deve figurare anche il suo costo sociale”.

Il ragionamento che ne sta alla base è semplice, è condivisibile o perlomeno ci interroga. Tutti, in un modo o nell’altro, non possiamo tollerare le ineguaglianze, anche quelle che non ci colpiscono direttamente. Oggi, ormai a tutti i livelli, anche nelle organizzazioni internazionali, si concorda persino nel sostenere che la diseguaglianza, crescente in termini di benessere, disparità di reddito, qualità di vita, è la morte dell’economia, perché la soffoca e la deprime, ed è anche sempre più la rovina della democrazia.  C’è però sempre uno scarto tra il livello di ineguaglianze che si alza e le buone intenzioni che non si manifestano. Due punti essenziali vanno quindi rilevati.

Il termine “sostenibilità” sui prodotti non può essere una scappatoia ecologica

Il primo: i prezzi del mercato non tengono conto di queste ineguaglianze. È ciò che gli economisti chiamano “esternalità”. Che cos’è un’esternalità? E in pratica un costo che non si paga, che è riversato su altri. Ma come ci sono delle industrie che inquinano senza pagare un centesimo per le conseguenze ambientali e sanitarie che generano, scaricando i costi all’esterno, su altri, ci sono anche imprese che praticano l’”inquinamento sociale” in tutta libertà e impunità.

Il secondo: l’inquinamento sociale è un costo sociale riversato all’esterno, su altri. Sta ad esempio nello sfruttamento della manodopera e nel mantenimento di salari da fame, nelle condizioni di lavoro impossibili, nella distruzione di famiglie, nella ripartizione dei proventi ottenuti da un prodotto in cui a beneficiarne è una sola parte (produttore, ma anche il consumatore di riflesso per i prezzi insinceri o disumani) e a danno di un’altra parte (lavoratori, coltivatori, intere nazioni). La domanda che ci si pone o ci si dovrebbe porre è quindi la seguente: se avessimo nell’atto nel nostro acquisto maggiori informazioni su queste ineguaglianze, non consumeremmo forse diversamente?

Da qui la proposta di Brian Bill, noto economista: bisogna comunicare, accanto al prezzo del prodotto o del servizio, anche il suo “prezzo sociale”. Quindi: il costo monetario del mercato per il cliente con accanto il costo sociale per tutta la collettività. In maniera sufficientemente semplice per essere compresa da ogni consumatore. In modo che il costo sociale non sia più una esternalità ignorata, ma un fattore da prendere in considerazione nella decisione dell’acquisto, pronti anche a spendere qualcosa di più pur di ridurre i costi sociali. Meno astratto di un simbolo o di un marchio o di una “garanzia” di sostenibilità divenuti ora abili oggetti di marketing o di pubblicità.

Le imprese che oggi utilizzano e vendono il termine “sostenibilità” sui loro prodotti, che non può essere solo una scappatoia ecologica, sarebbero obbligate a fare sul serio, a esporre dati verificabili, a essere economicamente trasparenti, anche sulla loro dichiarata responsabilità sociale. Quelle che non forniscono informazioni verificabili, hanno qualcosa da nascondere e sarebbero sottoposte a forti pressioni, a inchieste giornalistiche e a danni di mercato. Il consumatore sarebbe maggiormente responsabilizzato, con cognizione di causa. Come combinare quell’etichetta? Non sa di utopia? Si stanno studiando varie possibilità, ma si risponde subito: come si forniscono tutti i calcoli piuttosto astrusi per un consumatore comune sui contenuti, anche chimici, di un prodotto o sul numero delle calorie oppure si pretende la certificazione dei metodi di allevamento e di produzione per i beni derivati da animali, perché non si potrebbe, ad esempio, utilizzare perlomeno la “ratio” (scarto) tra il salario più basso e il salario più elevato di tutte le persone implicate nello sviluppo, produzione, finanziamento, gestione, trasporto, marketing e vendita del prodotto o del servizio come possibile metodo per misurare il “costo sociale” e agire quindi con responsabilità sociale? Se tale indicazione accompagnasse il prezzo, sarebbe difficile ignorarla, non lasciarsi interrogare, non trarre qualche conclusione come cittadino-consumatore. Utopia o no c’è perlomeno un aspetto positivo rilevato: il prezzo di un prodotto non può mai essere solo quello di mercato e andrebbe analizzato in tutte le sue componenti, anche quelle umane.

Silvano Toppi articolo apparso su La borsa della spesa del mese di dicembre 2020

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