“In Italia si butta via un terzo del cibo. Il 30% dei cibo acquistato finisce nella spazzatura, si tratta di un importo pari a 37 miliardi di € ovvero il 3% del Prodotto interno lordo”.
Leggendo questi titoli sul quotidiano la Repubblica lunedì 25 ottobre (vedi foto) c’è da spaventarsi. L’articolo firmato da Marco Trabucco sostiene che ogni italiano butta via in un anno 27 kg di cibo avanzato! In una tabella si quantifica la tipologia dello spreco il 18% della carne, il 15% della pasta, il 12% della frutta e della verdura. Come è possibile?
Provate a pensarci, il 30% % della spesa fatta sabato pomeriggio al supermercato viene buttato via! Quasi un sacchetto su tre. La sensazione è un pò diversa. In moltissime case gli sprechi sono ridotti al minimo, il pane avanzato si surgela, la pasta e il riso in eccesso si conservano in frigorifero e si riscaldano il giorno dopo, il latte fresco si mantiene 7 giorni e, se ben conservato, si può bere anche il giorno dopo. E’ più facile buttare via un ciuffo di verdura appassita o la frutta troppo matura, anche se qualcuno preferisce preparare una macedonia. Ma allora come si fa ad arrivare al 30%? La Repubblica cita come fonte Coldiretti, che utilizza dati di una ricerca firmata dall’Adoc.
La realtà è un po’ diversa. I dati riferiti nell’articolo sono assurdi e frutto di molta immaginazione per il semplice motivo che non esistono dati ufficiali. «Nessuno ha fatto un’analisi statistica validata calcolando a livello familiare l’entità dello spreco e del cibo che in pattumiera – precisa Luca Falasconi docente della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna e protagonista insieme a Andrea Segrè del progetto Last minute market. Esiste un’inchiesta inglese dove si stima che il 33% del cibo viene buttato via, ma in Italia non ci sono stime di questo tipo. I valori riferiti dall’Adoc non ha riscontri statistici validi e non può essere proposta come la verità. Ipotizzare in Italia valori simili a quelli inglesi non è serio. Il massimo dello spreco si registra nelle mense scolastiche dove il cibo finito nei sacchi neri dell’immondizia oscilla dal 15 al 18%». Vale la pena citare l’esempio record del comune di Milano, dove per anni è stato servito come pesce un piatto a base di totani che i bambini delle elementari non mangiavano per cui oltre l’80% del pesce finiva nel sacco dell’immondizia. Per fortuna si tratta di un fatto di cronaca che rivela la scarsa capacità del comune di Milano e non di una regola! Nelle mense aziendali si può stimare uno spreco che oscilla da 2 al 3%.
Qualcuno può puntare il dito contro i supermercati, ma anche in questo caso esiste un ciclo virtuoso per cui i prodotti in scadenza ancora commestibili, vengono ceduti e riutilizzati nei circuiti del volontariato.
Questi sono i dati del cibo che un supermercato Coop di grandi dimensioni (3300 metri quadrati) consegna giornaliera alla filiera “Brutti ma buoni“ per essere riutilizzato nell’ambito sociale:14 kg di yogurt, formaggi e salumi 27 kg di frutta fresca, 27 kg di verdura fresca e 7 kg di prodotti alimentari confezionati non deperibili (conserve pomodoro, pasta, scatolame, biscotti, prodotti da forno). Si tratta di quantitativi in grado di soddisfare le necessità dei circuiti del volontariato.
Nella lista degli sprechi si possono conteggiare le aziende alimentari, ma anche in questo caso si tratta di marginalità. Oggi per recuperare tutta la carne dagli animali macellati si usano macchinari in grado di spolpare le ossa e recuperare tutta la parte muscolare (sull’etichetta compare la dicitura “carne separata meccanicamente”). In ogni caso e gli scarti dell’industria della carne e del pesce non finiscono in discarica ma diventano cibi per cani e gatti. Esistono i ristoranti spreconi, ma ormai i conti si fanno anche in cucina e lo spazio di manovra è molto ristretto.
L’unico punto critico resta la famiglia, ma è difficile pensare che in un periodo di crisi ci siano così tante persone che buttano via il 30% del cibo acquistato, come scrive la Repubblica. Ma allora da dove nasce tutto questo disguido? Forse dalla voglia di fare titoli ad effetto e di dimenticare le regole del mestiere.
I dati sullo spreco in Italia secondo Luca Falasconi oscillano dal 10 al 15% della produzione nazionale. La fonte più importante di è la mancata raccolta in campo di frutta e verdura, che per difetti estetici, o perché risulta troppo grande o troppo piccola non trova spazio sul mercato. «Secondo le statistiche Istat – spiega Falasconi la quantità di frutta e verdura che rimane nei campi ammonta a 8 milioni di tonnellate, si tratta di un valore simile alla quantità di frutta e verdura consumata (8,5 milioni di tonnellate)». E’ vero che una parte di questi prodotti non potendo essere confezionata e commercializzata nei mercati all’ingrosso viene raccolta e venduta a livello locale in circuiti minori dagli ambulanti.
Nella classifica dello spreco al secondo livello troviamo i prodotti ritirati dal commercio dai supermercati e dai negozianti perché presentano difetti o sono in scadenza. Si tratta però di quantità ridotte e non certo esagerate (vedi schema precedente).
La terza componente riguarda la frutta e la verdura invenduta ammassata nei magazzini dei mercati all’ingrosso. Anche in questo caso ci sono però sistemi di vendita diretta alternativi come accade a Milano ogni sabato mattina al mercato ortofrutticolo.
Gli sprechi familiari esistono, ma nessuno li ha mai quantificati, e in ogni caso si tratta di valori assolutamente inferiore rispetto al 30% proposto dal quotidiano la Repubblica e da altri giornali e siti internet.
Luca De Biase, giornalista del Sole 24 ore, a proposito della cattiva informazione fornita dai giornali sull’influenza aviaria concludeva un pezzo auspicando che “la verifica vecchio arnese del giornalismo dovrebbe tornare di moda”.
Foto frutta:Photos.com
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.