Si sa che le parole sono importanti, perché a seconda del termine scelto uno stesso concetto può restituire un’idea diversa. In questo gioco lessicale gli inglesismi sembrano dominare il vocabolario dei parlanti moderni in tutti gli ambiti della vita anche quando fanno riferimento ad attività antiche quanto l’uomo. Nel panorama della nuova gastronomia, per esempio, da alcuni anni si fa strada una tendenza che riporta in auge il mestiere del raccoglitore chiamandolo con un altro nome: foraging, cioè la pratica di raccogliere cibo spontaneo vegetale esplorando diversi ambienti naturali per poi impiegarlo in cucina.
Il merito maggiore dello sviluppo di questa moda nei ristoranti stellati d’Europa ce l’ha il Noma di Copenhagen il cui chef, René Redzepi, rappresenta il simbolo del foraging nell’alta ristorazione. Emblema della cosiddetta New Nordic Cousine, la sua cucina mira a contrastare l’omologazione del gusto anche attraverso la promozione di un consumo alimentare sostenibile, etico, nonché di uno stile di vita più correlata al territorio. Tale frontiera di sperimentazione culinaria che propone piatti all’insegna della stagionalità e un’idea di gusto basato sulla consapevolezza di ciò che si mangia, è molto presente anche in Italia, basti pensare al Wood*ing di Milano, il primo food lab al mondo che lavora esclusivamente sul wild food – così come spiegato sul sito, perché le parole spesso fanno tanto. Il ristorante diverse volte al mese organizza menu di degustazione realizzati quasi esclusivamente con alimenti di origine selvatica. Al riguardo, da menzionare è anche il progetto di Norbert Niederkopfer – lo chef stellato del ristorante St. Hubertus di San Cassiano in Badia (BZ) – “Cook The Mountain”, un’idea pensata per attribuire all’Alto Adige una nuova identità culinaria attraverso la coltivazione sostenibile, l’assenza di sprechi e un’interazione tra cuochi, agricoltori, storici e ricercatori.
Alla base di queste iniziative c’è anche la volontà di limitare i consumi, riciclare gli avanti, valorizzare ingredienti considerati umili e assumere delle abitudini tipiche di un’economia di sussistenza anche per rispondere positivamente alla crisi economica. Qui diventa più intelligibile il paradosso che questa specie di ritorno alle origini porta con sé, dato che quello che era un’attività di sopravvivenza, così come lo era la caccia, e un’azione obbligata dal fatto che fino a fine Ottocento nelle campagne il pasto quotidiano era tra il 70% e l’80% selvatico oggi sembra essere diventato un elemento di lusso. Sebbene il foraging urbano, così come i laboratori sulla raccolta non rispondano esclusivamente al richiamo del primitivismo modaiolo della cucina nordica, nel loro tentativo di proteggere la biodiversità, sostenere una forma di decrescita e incentivare la conoscenza delle materie prime, questi progetti sono esclusivi.
Ecco quindi che il foraging rischia di diventare una prerogativa delle classi più abbienti, facendo diventare alimenti che dovrebbero essere appannaggio di tutte e tutti proprio per il loro essere spontanei, un prodotto d’eccezionalità. Sebbene i fast food siano frequentati da ricchi e poveri, dubito che i corsi sulle erbe selvatiche o i tavoli dei ristoranti stellati accolgano anche quegli strati di popolazione più svantaggiata.
Si potrebbe dunque concludere che il processo che ha visto gli alimenti semplici come le bacche, le alghe o le radici diventare i protagonisti di una cucina ricercata, nel senso di non immediata e sostenibile, sia legato a un presupposto classista che allontana tale cibo dalla sua naturale condizione di povertà ovviamente non intesa in termini di valori nutrizionali. Considerato poi che la traduzione italiana di “foraging” è “alimurgia” – cioè “attività che calma la fame” ed è conosciuta come la scienza che riconosce l’utilità di cibarsi di piante selvatiche soprattutto in tempi di carestie ma anche a soli scopi salutistici – pare evidente come questa pratica si sia allontanata a tal punto dal suo primo significato da diventare qualcosa di elitario. In una società dove l’educazione alimentare scarseggia ed è strettamente legata a una questione di estrazione sociale, la possibilità di conoscere le piante e alimentarsi anche di cibo spontaneo raccolto in montagna, lungo gli argini dei fiumi o in campagna non può essere accessibile solo a chi è in possesso di una forte cultura del cibo perché il pericolo è anche quello di rendere la salute un concetto sempre meno equo e fare degli alimenti di tutti una specialità per pochi.
© Riproduzione riservata
Alcuni conoscenti che sono maniaci del foraging, posso dire però che lo fanno in quanto morti di fame e micragnosi.
… a parte il rischio di rendere esclusiva una sapienza che andrebbe invece diffusa gratuitamente e insegnata anche a scuola, va considerato anche il rischio che qualcuno imprudentemente raccolga erbe velenose o tossiche…
Condivido che tale pratica sia elitaria, anche perché i corsi di fitoalimurgia non sono destinati a tutti in quanto a pagamento ed effettuati a gruppi ristretti di persone che praticano il trekking o la mountan bike .
Siamo arrivati al colmo: per definire una delle consuetudini alimentari più antiche e salutari, praticate da tempi immemorabili dai nostri antenati, si ricorre a un ennesimo, odioso, termine inglese. Mi spiace, ma sbagliate anche voi a contribuirne la divulgazione.
Vi prego: parlate delle nostre tradizioni!