Intolleranza al lattosio: se ne sente parlare così tanto che viene da pensare sia un problema dei nostri tempi. Ma non è così, la problematica esisteva già 7.000 anni fa, quando cominciava a delinearsi una differenza di consumi (e di tolleranza) tuttora evidente tra Nord e Sud del continente europeo. È la conclusione cui è giunta una recente ricerca, pubblicata su Nature Communications da un’équipe internazionale. Per valutare la diffusione dei latticini nel versante atlantico dell’Europa, gli studiosi hanno analizzato i resti di grassi trovati in recipienti di ceramica utilizzati tra 7.500 e 5.500 anni fa da agricoltori e allevatori della costa atlantica. Hanno quindi appurato che il consumo era limitato in Spagna e Portogallo, ma molto più sostenuto nelle isole britanniche: qui, oltre l’80% dei frammenti analizzati conteneva tracce di latticini.
Allora il latte era tra gli alimenti da poco introdotti in seguito alla domesticazione di mucche, soprattutto a Nord, e di pecore e capre. All’inizio la cosa non fu semplice perché l’organismo degli adulti non era in grado di digerirlo, perciò si rese necessario un processo di adattamento, che è stato obbligato nelle zone con clima freddo e minor disponibilità alimentare, come era appunto il Nord Europa.
Questa ricerca aiuta a comprendere la differenza di tolleranza tra le aree settentrionali e meridionali, una differenza evidente ancora oggi in Italia che, da parte sua, è un po’ uno spaccato delle diverse latitudini europee: si passa infatti dalle zone alpine e del Nord Italia in genere, nelle quali è più radicato l’allevamento dei bovini e la tolleranza al latte è abbastanza diffusa, alle zone meridionali dove la tradizione ruota maggiormente intorno a pecore e capre e la tolleranza è ridotta. Secondo quanto riportato dall’Aili (Associazione italiana latto-intolleranti), la problematica viene stimata a livello nazionale intorno al 50% (percentuale che comprende anche soggetti asintomatici), con un’incidenza variabile in base alle zone e comunque molto superiore al Sud e nelle isole.
“Lo studio su Nature Communications evidenzia l’effetto storico-culturale, che vede un’alta prevalenza del sistema lattasi [l’enzima necessario per digerire il lattosio, lo zucchero del latte. n.d.a.] quale risultato di un processo dipendente dal latte come principale fonte alimentare, soprattutto in periodo di carestie” sottolinea Antonella Muraro, responsabile del Centro Allergie Alimentari della Regione Veneto presso l’Azienda Ospedale-Università di Padova e coordinatrice delle linee guida europee per l’allergia alimentare e l’anafilassi. Un processo che è si è svolto a due velocità e che tuttora mostra differenze notevoli tra le diverse aree del mondo. “Nelle zone settentrionali di Europa e America l’intolleranza al lattosio è bassa; nel bacino mediterraneo si aggira sul 40%, mentre alle latitudini meridionali di America, Africa e Asia gli intolleranti sono il 60-90%, perfino il 100%”. Essere più o meno tolleranti ai latticini non è quindi una questione genetica, evidenzia l’esperta, quanto piuttosto una selezione sulla base di quello che offre l’ambiente.
“Il colostro è ricchissimo di lattosio, perciò la lattasi nella mucosa intestinale è al massimo a un mese dalla nascita” spiega la prof. Muraro. “Poi c’è un calo continuo. Il tempo di declino varia in base all’etnia; cinesi e giapponesi perdono l’80-90% dopo lo svezzamento, nei primi 3-4 anni di età. Ebrei e asiatici hanno un calo nell’adolescenza, mentre per i nordeuropei la lattasi arriva ai minimi intorno ai 20 anni. Nel 70% della popolazione non persiste l’enzima lattasi”. Ciò non toglie che ci possa essere una tolleranza nel consumo di latticini, specifica l’esperta. “La popolazione è infatti già stabilizzata su livelli minimi di consumo”. Oltre questi limiti, variabili da un individuo all’altro, possono sorgere problemi.
Nei soggetti che hanno reazioni indesiderate ai latticini, come gonfiore addominale e diarrea (o al contrario stipsi ostinata, fa notare la specialista), è sempre possibile tornare a mangiare moderatamente i latticini, ma molto dipende dalla gravità dell’intolleranza, che si valuta con lo specifico Breath test. “Noi ci avvaliamo di un Breath test molto affidabile e in grado di ridurre i falsi negativi, reso disponibile dal Laboratorio dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. L’affidabilità del test è cruciale anche per limitare il rischio di una diagnosi sbagliata, che fa magari passare inosservata un’altra malattia”.
Le intolleranze, poi, non sono tutte uguali. Secondo Muraro quella congenita al lattosio è rarissima e comporta l’assoluta esclusione dei latticini. Al di fuori di questa, nella stragrande maggioranza dei casi si distinguono due forme. “Quella primaria, legata a caratteristiche ancestrali e fisiologiche, dipende da un deficit della lattasi per declino fisiologico”. In questo caso è possibile assumere latticini in quantità variabili a seconda del soggetto. Più frequente, e reversibile, è invece la forma secondaria. “Questa è dovuta a un danno della mucosa intestinale per cause diverse: per esempio infezione da parassiti, eccesso di antibiotici, gastriti, morbo di Crohn”. Risolvendo il problema intestinale, si può quindi recuperare la tolleranza, comunque variabile a seconda dell’individuo.
In conclusione, l’intolleranza al lattosio dipende indubbiamente da fattori storico-culturali; tuttavia una valutazione precisa del problema può portare a una sua soluzione, o per lo meno a una sua attenuazione.
Giuliana Lomazzi
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Io ci andrei piano a consigliare di rimangiare latticini, anche se in quantità moderate, dopo aver tamponato o migliorato una patologia intestinale qualsiasi in un adulto, sono patologie subdole e quando si presentano con evidenza il danno in genere è già importante e lunga e difficile è la via del recupero.
La genetica non c’entra perchè il nostro cibo di elezione alla nascita è il latte materno , cioè da mamma umana e non di altro animale, quindi questo alimento è naturale e altamente funzionale con tutti gli attributi epigenetici necessari, dopo lo svezzamento le cose cambiano certamente a seconda che la comunità sia pastorale , onnivora oppure orientata su altri tipi prevalenti di cibo.
Le cose sono senz’altro molto più complicate e andare a rovistare nei cocci antichi pùò al massimo fornire ipotesi di studio ma nessuna certezza.
L’industria alimentare del latte da temo produce il Latte HD (alta digeribilità) in cui il lattosio è già stato scomposto. Ci sono poi molti formaggi freschi anche loro senza lattosio.
Se poi andiamo sui formaggi stagionati (vedi il Parmigiano Reggiano che non piace molto al Nutri-Score) il lattosio è già stato scomposto. Il gorgonzola è un formaggio naturalmente privo di lattosio.
Molte sono le alternative per chi ama i latticini, ma è intollerante al lattosio (vissuto personale in famiglia).
L’abitudine italiana a fare colazione con lo zuppone di caffelatte (leggero, oppure d’orzo prer i bambini) ha contribuito a mantenere alto il livello di lattasi nella nostra popolazione e quindi bassa l’intolleranza al lattosio, che però può manifestarsi negli adulti che hanno da tempo perso quell’abitudine.
In questi casi un graduale ritorno al consumo di latte provoca, dopo ovvi disturbi iniziali di breve durata, la ricomparsa della lattasi in quantità sufficiente a normalizzare la digestione, e data l’importanza del latte e dei latticini per il loro appporto di calcio è una pratica assolutamente da incoraggiare.
Ovviamente chi è realmente intollerante in modo non reversibile potrà ripiegare sul latte privo di lattosio (in realtà latte col lattosio già scomposto e che quindi non necesita della lattasi) e ai prodoti caseari stagionati nei quali il lattosio non è più presente.