“Come natura crea” era lo slogan di un noto marchio di passata di pomodoro, pelati e verdure in scatola. In realtà ben poco di ciò che mangiamo, sia conservato sia fresco, è “come la natura l’ha creato”. Forse gli unici articoli che compriamo tal quali sono i funghi porcini, i prodotti della pesca (non quelli provenienti da allevamenti!) e la selvaggina. Tutto il resto è il risultato di millenni di selezione operata dall’umanità in base alle proprie necessità. Il grano da cui ricaviamo la farina, i pomodori che troviamo tutti i mesi dell’anno sempre perfettamente rossi e sodi, le vacche da cui ricaviamo latte e bistecche, non hanno niente a che fare con i loro lontani progenitori. Quali sono i processi che permettono il continuo miglioramento?
Ne parliamo con Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca Genomica e Bioinformatica del Crea.
“La storia del miglioramento genetico delle specie coltivate, e degli animali allevati dall’uomo, inizia circa 10mila anni fa – dice Cattivelli – quando i nostri antenati hanno cominciato a selezionare, e riprodurre, le varietà con caratteristiche più utili e interessanti. Un processo inizialmente molto lento, che ha visto due momenti di rapida accelerazione. Il primo si colloca all’inizio del XX secolo, quando la “scoperta” delle leggi di Mendel, che descrivono in che modo le caratteristiche sono trasmesse da una generazione all’altra, ha permesso di pianificare scientificamente gli incroci da utilizzare per produrre varietà interessanti. Mentre il secondo si colloca intorno al 1980, data in cui le biotecnologie hanno fatto un salto in avanti ed è diventato possibile “utilizzare” le informazioni del Dna per selezionare piante e animali.”
“Fino al XIX secolo – continua Cattivelli – le nuove varietà si selezionavano in modo empirico: risalgono a questo periodo diversi vitigni e varietà di ulivo, oltre a frutti come le arance Washington Navel, le mele Granny Smith e le pere Abate. Hanno invece avuto origine nel periodo successivo, fra il 1900 e il 1980, le varietà di riso classiche, come Vialone nano e Carnaroli, molte mele (Golden, Gala, Fuji) e varietà cosiddette “antiche” di frumento. Dal 1980 le cose sono cambiate: andando ad analizzare direttamente il Dna è stato possibile individuare in modo preciso quali tratti si dovevano “trasferire” o “eliminare” per ottenere un certo risultato. Sono stati selezionati in questo modo, modificando specifici geni, i cavolfiori di colore arancione, belli da vedere e più ricchi di carotenoidi, o le varietà di uva e di anguria senza semi, che tutti apprezziamo.”
Le procedure per manipolare i geni a cui si riferisce Cattivelli non hanno niente a che fare con gli organismi geneticamente modificati (Ogm), questi ultimi infatti – la cui coltivazione in Italia è bandita – sono organismi il cui Dna è stato trasformato in modo diretto, con le tecniche di ingegneria genetica. Per alcune colture, come la soia e il mais, le varietà geneticamente modificate sono molto diffuse nel mondo, ma per la grande maggioranza dei vegetali, quando si parla di miglioramento genetico si fa riferimento a processi che permettono di individuare le caratteristiche utili analizzando direttamente il Dna, rendendo così la selezione molto più precisa che in passato. Semplificando, possiamo dire che se, per esempio, sappiamo qual è il tratto di Dna che controlla la produzione dei semi, possiamo incrociare piante con caratteristiche diverse e andare a studiare il Dna delle piantine, per trovare quelle in cui questo gene è “disattivato” o “attivato”.
Come si generano le nuove caratteristiche?
“A seconda dei casi, si possono fare incroci fra varietà diverse, oppure utilizzare radiazioni (paragonabili ai raggi X delle radiografie) per aumentare la frequenza con cui compaiono mutazioni, – spiega Cattivelli – cambiamenti del Dna che si verificano, in modo casuale, in tutti gli organismi. Noi andiamo a cercare quelle che introducono caratteristiche interessanti. Grazie a queste tecniche, che permettono di introdurre sempre nuovi “aggiornamenti”, la maggior parte di ciò che troviamo al supermercato deriva da varietà ottenute negli ultimi 40 anni.”
Un caso eclatante è quello del pomodoro, sia da insalata che da industria. I pomodori ciliegini e i datterini, arrivati nella grande distribuzione a metà degli anni ’90, hanno caratteristiche molto diverse dai pomodori degli anni ’70: sono più saporiti, si acquistano maturi, nel grappolo sono tutti rossi e possono rimanere diversi giorni sui bancali e nel frigorifero di casa senza marcire.
“Questo avviene grazie alla modificazione di un gene che controlla i tempi di maturazione – spiega Cattivelli – che in questo caso è rallentata, così da permettere un’ottima conservabilità. Oggi troviamo pomodori gialli, rosati o zebrati, ma la ricerca più attuale riguarda il sapore, aspetto forse un po’ trascurato. Le principali innovazioni introdotte nei pomodori da industria sono invece legate alla resistenza del frutto: oggi sono raccolti utilizzando macchine, ma questo fino agli anni ’90 non era possibile, perché erano troppo delicati. Il top del settore, considerando la ricerca genetica, sono i ciliegini da industria, a raccolta meccanica, comparsi negli anni 2000”.
Le mele sono sempre state un frutto molto importante, consumato durante tutto l’anno; fino a pochi decenni orsono, però, quelle che arrivavano a primavera inoltrata erano sempre farinose. Negli ultimi 40 anni sono state selezionate molte nuove varietà: sono sempre più facili da conservare e più croccanti.
E le pesche? Fino a 40 anni fa in Italia maturavano in luglio-agosto; adesso sono disponibili varietà che giungono a maturazione (naturalmente in campo), dai primi di giugno a ottobre. Quelle maturate al sole di agosto sono forse più saporite, ma molti consumatori le apprezzano anche “fuori stagione”.
Un altro prodotto della ricerca genetica è la pasta Voiello con grano “Aureo” 100% italiano. “Il grano duro italiano non è molto ricco in proteine, componente importante per produrre pasta con una buona tenuta di cottura; per questo motivo i pastifici acquistano all’estero, di solito dal Nord America, le farine con queste caratteristiche. – Fa notare Cattivelli – La pasta Voiello (marchio della Barilla), prodotta con grano Aureo, utilizza una varietà di frumento duro a elevato tenore proteico adatta all’ambiente italiano, selezionata nel 2008 da una ditta sementiera italiana.”
Finora abbiamo parlato di vegetali, ma questi processi interessano anche gli animali da allevamento. Come le vacche da latte. “Il latte prodotto non è cambiato molto negli ultimi 40 anni, ma è certamente cambiata la quantità che ogni vacca produce. La selezione genetica ha creato animali che producono 90-100 quintali di latte all’anno, mentre 40 anni fa una vacca della stessa razza ne produceva circa 50. Questo ha permesso di mantenere basso il prezzo del latte.”
Viste le polemiche legate al prezzo del latte, non è chiaro se questo “progresso” sia stato effettivamente utile, il problema però non riguarda la genetica ma la gestione del mercato. Le vacche moderne tuttavia hanno anche qualche problema di fertilità, perché il periodo fertile si è accorciato – da otto a tre cicli di lattazione – quindi nel complesso la vacca ha una vita più breve, nel corso della quale non produce più latte di quelle che l’hanno preceduta qualche decennio orsono.
Gli esempi visti finora – grano per la pasta al dente, cavolfiori colorati o anguria senza semi – riguardano caratteristiche che vanno incontro alle richieste del mercato. Gli studi di miglioramento genetico hanno però anche scopi diversi e, se vogliamo, più “importanti”: trovare varietà resistenti ai parassiti, che permettano di ridurre l’impiego di pesticidi, adatte alle condizioni climatiche di regioni diverse, oppure resistenti alla siccità, per utilizzare meno acqua.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.