La petizione lanciata da Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade per chiedere al Ministero dello sviluppo economico di mantenere sulle etichette dei prodotti alimentari l’indicazione dello stabilimento di origine, ha superato 7.000 firme che si sommano alle 23 mila già raccolte sul blog “Io leggo l’etichetta”.
La posizione dei supermercati sullo stabilimento in etichetta
Ai gruppi della grande distribuzione che nelle scorse settimane hanno dichiarato di mantenere l’indicazione sulle etichette dei prodotti con il loro marchio: U2, Conad, Coop, Esselunga, Auchan, Carrefour, Eurospin, Iper, NaturaSì, Sigma, Selex, Simply… se ne sono aggiunte altre. Una settimana fa è stata la volta del Gruppo VéGé, e di C3 il consorzio composto da 19 insegne in Italia che utilizza prodotti con la marca “Noi & Voi”. È di pochi giorni fa la notizia che la catena tedesca di hard discount Lidl ha fatto retromarcia, decidendo di mantenere l’indicazione in etichetta (come scrive Monica Rubino su Repubblica). In redazione sono arrivate altre adesioni da Sisa, Crai, Picard, Pam Panorama, Agorà network con le insegne:Basko, Poli, Tigros e Iperal.
In attesa che tutte le catene assumano una posizione chiara rispetto a questo tema, cruciale per i consumatori e per la filiera agroalimentare, abbiamo messo a punto una tabella riassuntiva (vedi sotto). La faccina rossa è associata ai 5 gruppi che hanno deciso di non inserire il nome e la sede dello stabilimento di produzione sulle etichette dei loro prodotti. La faccina verde è riservata alle 20 catene che hanno dichiarato di mantenere la dicitura, non più obbligatoria da 14 dicembre 2014 (*).
In questa campagna che dovrebbe unire consumatori, imprenditori e operatori del settore spicca la scarsa presenza dei rappresentanti della filiera, sia quelli della produzione agricola primaria sia degli operatori della trasformazione. Non ci sono dichiarazioni delle confederazioni agricole e di quelle artigiane come dei sindacati, pur essendo coinvolti nelle trattative legate alle delocalizzazioni (vedi articolo). Forse ci toccherà andare a chiedere le posizioni di ciascuno per compilare la prossima tabella dove sarà ancora più chiaro chi sta dalla parte del “made in Italy”?
La lista dei 20 supermercati che indicano lo stabilimento di produzione in etichetta (faccina verde) e delle 5 catene che preferiscono tenere nascosto questo particolare (faccina rossa).
(*) L’indicazione dello stabilimento di produzione è importante perché marchi italiani nelle mani di gruppi stranieri sono parecchi e sono destinati ad aumentare sia per “l’appeal” del “made in Italy” nel mondo, sia per la recessione economica. Il fenomeno non è di per sé negativo, al di là dei patriottismi, nella misura in cui gli acquirenti stranieri siano in grado di mantenere e sviluppare in Italia le politiche industriali. Il vero problema è costituito dai gruppi che – con un bel marchio italiano in tasca, magari pure una sede legale in Italia –cercano e/o riescono a mandare tutti a casa e delocalizzare la produzione all’estero, continuando a vendere i prodotti con marchi italiani. In questi casi non si tratta solo di un trasloco dello stabilimento ma c’è qualcosa di più che cambia.
In buona sostanza, quando lo stabilimento trasloca il cibo perde completamente la sua identità di “Made in Italy”. Il consumatore poi non ne sa nulla, a meno che qualcuno si prenda la briga di informarlo. Le politiche industriali e fiscali di altri Stati membri hanno già attratto Ferrero e Perfetti Van Melle tra Lussemburgo e Olanda. Ma c’è dell’altro, e basta leggere le cronache degli ultimi mesi per rendersene conto.
- Nestlé, marchio Buitoni. Contorni sfuocati sul destino dello stabilimento di Sansepolcro (AR), mentre il colosso svizzero concentra in Germania gli investimenti sulla produzione di pizze surgelate con nomi che – giusto a proposito – richiamano la Toscana
- Nestlé, marchio Perugina, stabilimento di San Sisto (PG), “sottoscrizione del contratto di solidarietà avvenuta lo scorso mese di agosto.” [210 addetti, ndr].
- Unilever, marchio Algida, a Caivano “Smantellamento industriale: si apre un caso nella grande fabbrica di Caivano produttrice del famoso gelato. Parte delle produzioni già dirottate in Inghilterra e in Germania.
- Lactalis, marchi Galbani e Cademartori (oltre a vari altri, a partire da Parmalat). A febbraio 2014, chiusura dello stabilimento Galbani a Caravaggio (BG) e del reparto del confezionamento gorgonzola Cademartori d’Introbio in Valsassina (LC) .
- Deoleo, marchi Carapelli e Sasso. Chiusura dello stabilimento di Inveruno, cassa integrazione e licenziamenti a Tavernelle Val di Pesa.
- Campofrio, marchio Fiorucci, salumificio di Pomezia. Cassa integrazione per 250 lavoratori, a seguire licenziamento collettivo di 175 addetti, gennaio 2015.
- Gallina Blanca, marchio Star, stabilimento di Agrate, giugno 2013. Preoccupa il destino di una fabbrica che ha scritto la storia dell’industria alimentare italiana.
Sarà il caso o la curiosa coincidenza, ma tutte le citate operazioni di “riassetto” sono successive all’entrata in vigore del regolamento (UE) 1169/11. Che con l’efferata connivenza del governo italiano ha spazzato via l’informazione obbligatoria della sede dello stabilimento in etichetta.
Roberto La Pia e Dario Dongo (Great Italian Food Trade)
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Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno lanciato una petizione per chiedere che sulle etichette dei prodotti alimentari rimanga l’indicazione dello stabilimento di produzione
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Ci si meraviglia della delocalizzazione delle imprese, ma nessuno vuole approfondire i motivi della fuga all’estero. In Italia, non c’è nessun futuro per le imprese. Per salvarsi dai crimini commessi dalla pubblica amministrazione nei loro confronti, devono fuggire.
Come sappiamo i Regolamenti sono di immediata applicazione, su questo non ci piove.
Le cause di questo inghippo sono:
1) O i nostri politici eletti all’UE “non conoscono la legislazione europea” e cadono dalle nuvole, fanno lo “gnorri” ed altri comportamenti ridicoli..
2)O altre ipotesi poco etiche ma contrarie agli interessi della Nazione
Rettifichiamo un’informazione scorretta riguardo i supermercati Crai, presente nell’articolo e ora corretta: la Crai ci ha informato di aver sempre mantenuto l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione. Di seguito il comunicato di Crai:
“Uno dei principi fondamentali in cui Crai crede da sempre è la trasparenza nei confronti dei propri Clienti.
Su tutti i prodotti a marchio Crai, fin da prima dell’entrata in vigore del Regolamento n° 1169/2011, comunichiamo la ragione sociale dei nostri Partner e lo stabilimento di produzione. Questo come scelta strategica del gruppo in virtù e rispetto dei Valori in cui crediamo ed al tempo stesso per essere trasparenti con chi quotidianamente ripone la sua fiducia nei nostri prodotti.
In tutte le fasi di sviluppo dei prodotti a marchio Crai, dalla scelta dei Partner, alla selezione degli ingredienti e delle ricette, fino al modo in cui comunichiamo le caratteristiche dei nostri prodotti, abbiamo in mente una sola cosa: meritarci fino in fondo la fiducia dei nostri Clienti.
Segrate, 20 marzo 2015.”
Ma la Barilla che ha più produzione all’estero che in Italia?
La legge è legge, si dice. La normativa comunitaria non prevede l’indicazione dello stabilimento di produzione, non vedo perchè criminalizzare chi si attiene alla norma. Sia chiaro non voglio giustificare quelli che “omettono” tale indicazione. Ritengo che l’indicazione dello stabilimento di produzione sui prodotti alimentari possa essere motivo di orgoglio del produttore, ed anche una forma pubblicitaria diretta a tutto vantaggio dello stesso, senza lasciare meriti che non hanno ai confezionatori e/o ai rivenditori.