Senza la sede dello stabilimento in etichetta le produzioni italiane vengono trasferite più facilmente all’estero e si chiudono aziende. Ecco i nomi
Senza la sede dello stabilimento in etichetta le produzioni italiane vengono trasferite più facilmente all’estero e si chiudono aziende. Ecco i nomi
Dario Dongo 26 Gennaio 2015L’indicazione in etichetta della sede dello stabilimento – un’informazione obbligatoria per i prodotti alimentari italiani dal febbraio 1992 al dicembre 2014 – deve ritornare perché svolge diverse funzioni. Ci siamo già soffermati sul ruolo di questa dicitura nella gestione delle crisi inerenti la sicurezza alimentare e abbiamo accennato a come le scelte d’acquisto da parte dei consumatori basate su questo elemento possono favorire la produzione agro-alimentare e l’occupazione in Italia. Consideriamo ora il concreto rischio di delocalizzazioni che può derivare dall’omissione della sede produttiva.
I marchi italiani nelle mani di gruppi stranieri sono parecchi – nell’alimentare come in altri settori (1) – e sono destinati ad aumentare sia per “l’appeal” del “made in Italy” nel mondo, sia per la recessione economica che perdura nel nostro Paese. Il fenomeno può essere attribuito a svariate cause, frammentazione produttiva e difficoltà di aggregazione delle imprese italiane, condizioni finanziarie sfavorevoli, difficoltà di accesso al credito, passaggi generazionali mal gestiti e via dicendo. Il fenomeno non è di per sé negativo, al di là dei patriottismi, nella misura in cui gli acquirenti stranieri siano in grado di mantenere e sviluppare in Italia le politiche industriali legate ai marchi.
Il vero problema è costituito dai gruppi che – con un bel marchio italiano in tasca, magari pure una sede legale in Italia –
cercano e/o riescono a mandare tutti a casa e delocalizzare la produzione all’estero, continuando a vendere i prodotti con marchi italiani storici nel nostro Paese e nel mondo. In questi casi non si tratta solo di un trasloco dello stabilimento ma c’è qualcosa di più che cambia. Il prodotto subisce una modifica essenziale, poiché il luogo di produzione incide sia sulla cultura materiale delle diverse popolazioni, sia sulla qualità delle materie prime (a partire dall’acqua). Per non tacere del maggior livello di controlli sulla tracciabilità e la sicurezza de prodotti, universalmente riconosciuto alle autorità sanitarie italiane. In buona sostanza, quando lo stabilimento trasloca il cibo perde completamente la sua identità di “Made in Italy”. Ma il consumatore non ne sa nulla, a meno che qualcuno si prenda la briga di informarlo.
Fanta-economia? Forse no. Le politiche industriali e fiscali di altri Stati membri (2) hanno già attratto Ferrero e Perfetti Van Melle tra Lussemburgo e Olanda (3). Ma c’è dell’altro, e basta rileggere le cronache degli ultimi mesi per rendersene conto.
- Nestlé, marchio Perugina, stabilimento di San Sisto (PG), “sottoscrizione del contratto di solidarietà avvenuta lo scorso mese di agosto.” [210 addetti, ndr]. L’intervento di Carla Spagnoli, presidente onorario Movimento per Perugia, il 29.10.14, contro Nestlé: “Cosa volete farne della Perugina? […] Ormai è sotto gli occhi di tutti il disimpegno della Nestlé e la sua volontà di non puntare sulla Perugina: ricordiamo ancora la vergognosa vicenda dei Baci “Lanvin” venduti in Francia, dove ogni riferimento al marchio “Perugina” e allo stabilimento di San Sisto era stato eliminato, quasi fosse una vergogna e non un vanto da mostrare in tutto il mondo!” (4).
- Nestlé, marchio Buitoni. Contorni sfuocati sul destino dello stabilimento di Sansepolcro (AR), mentre il colosso svizzero concentra in Germania gli investimenti sulla produzione di pizze surgelate con nomi che – giusto a proposito – richiamano la Toscana (5).
- Unilever, marchio Algida, a Caivano “Smantellamento industriale: si apre un caso nella grande fabbrica di Caivano produttrice del famoso gelato. Lungo stop in cassa a zero ore, da novembre a gennaio. Parte delle produzioni già dirottate in Inghilterra e in Germania. Una delle eccellenze campane, il grande stabilimento Algida, chiuderà per due mesi di fila: mille lavoratori in cassa integrazione a zero ore. E adesso la sensazione è che il mitico cornetto stia per prendere la strada del nord Europa, col risultato che l’Italia rischia di rimanere a bocca asciutta.” (6)
- Lactalis, marchi Galbani e Cademartori (oltre a vari altri, a partire da Parmalat). A febbraio 2014, chiusura dello stabilimento Galbani a Caravaggio (BG) e del reparto del confezionamento gorgonzola Cademartori d’Introbio in Valsassina (LC) (7).
- Deoleo, marchi Carapelli e Sasso. Chiusura dello stabilimento di Inveruno, cassa integrazione e licenziamenti a Tavernelle Val di Pesa (8).
- Campofrio, marchio Fiorucci, salumificio di Pomezia. Cassa integrazione per 250 lavoratori, a seguire licenziamento collettivo di 175 addetti, gennaio 2015 (9).
- Gallina Blanca, marchio Star, stabilimento di Agrate, giugno 2013. “A preoccupare è però il destino di una fabbrica che ha scritto la storia dell’industria alimentare italiana ma che oggi lotta contro il declino. […] In via Matteotti ad Agrate lavorano 390 persone: 180 impiegati, 210 operai. Occupano neppure 40mila dei 220 mila metri quadri di capannoni. Trenta anni fa c’erano più di 3.000 persone a preparare dadi, sughi, pelati, infusi, riso e pasta pronti, pizze, tortellini, olio, margarina, polenta, orzo, caffè, budini. Oggi da via Matteotti escono solo dadi, infusi, sughi pronti, tè e prodotti per la prima infanzia. Il resto si produce fuori.” (10)
Sarà il caso o la curiosa coincidenza, ma tutte le citate operazioni di “riassetto” sono successive all’entrata in vigore del regolamento (UE) 1169/11. Che con l’efferata connivenza del governo italiano ha spazzato via l’informazione obbligatoria della sede dello stabilimento in etichetta.
A voi lettori, chiediamo di fornirci notizie utili a ricostruire una quanto più precisa “mappa delle delocalizzazioni”, per costruire un quadro completo della situazione. Ogni notizia e commento saranno benvenuti.
Note:
(1) leggi articolo.
(2) leggi articolo.
(3) leggi articolo.
(4) leggi articolo, 2, 3, 4, 5.
(5) Nestlé e Buitoni, leggi articolo, 2.
(6) Unilever e Algida, leggi articolo.
(7) Lactalis, Galbani e Cademartori, leggi articolo, 2.
(8) Deoleo, Carapelli e Sasso, leggi articolo, 2.
(9) Campofrio e Fiorucci, leggi articolo, 2.
(10) Gallina Blanca e Star, leggi articolo
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[sostieni]
Avvocato, giornalista. Twitter: @ItalyFoodTrade
assolutamente a favore dell’articolo. Però aggiungerei che la colpa è anche della nostra pressione fiscale che è alle stelle
Ti sei mai chiesto perché è alle stelle?
PS – ti prego, non mi rispondere per la casta, la cricca e la corruzione, te lo anticipo io: non è per quello.
Caro Giovanni,
il governo che finora non ha notificato la prescrizione nazionale della sede dello stabilimento in etichetta è lo stesso a cui possono venire indirizzate istanze di politiche industriali idonee a evitare la fuga delle imprese dall’Italia, a cui conseguono chiusure di stabilimenti e disoccupazione.
E le misure da intraprendere non riguardano soltanto l’entità del prelievo fiscale, purtroppo. Basti pensare a oneri e tempi della burocrazia e della giustizia, a quel fatidico articolo 62 che avrebbe potuto risolvere una serie di problemi nelle relazioni commerciali se solo mai fosse stato applicato, al c.d. ‘cuneo fiscale’ e agli incentivi all’occupazione.
La colpa non è certo dei lavoratori, nè dei consumatori i quali tutti pur vantano legittime aspettative e diritti, a tutt’oggi privi di risposte
Si certo, la situazione è complessa.
La cosa che però mi sorprende più di tutte è che le aziende citate nell’articolo, non spostano gli stabilimenti in paesi del “terzo mondo” o con economie deboli dove i costi di produzione sono irrisori. Si parla di Gran Bretagna, Olanda, Germania e questo non me lo spiego perchè in questi paesi il costo del lavoro non è così basso.
L’altro problma è che aziende come Nestlè, Lactalis o Uniliver non sono Italiane, hanno comprato aziende italiane e quindi non si pretendere che restino qui.
Giovanni, il costo del lavoro per unità di prodotto in Germania è decisamente più basso che in Italia, a causa del cambio fisso (euro) e delle loro simpatiche politiche “beggar thy neighbour” (le “riforme” del 2003).
Oppure, se vuoi una motivazione “mainstream”, a causa della castacriccacorruzione e dei politici che sessòmagnatitutto.
Interessante, ma sicuro che certe strategie non vengano da più lontano? Non credi che il mercato italiano, l’unico in Europa ad avere avuto l’obbligo della sede dello stabilimento di produzione negli anni passati, non sia l’unico dove questi colossi vendono i prodotti “sounding alike”?
Se non già fatto, promuoviamo una sottoscrizionne di firme con CHANGE.ORG per il mantenimento dell’indicazione obbligatoria dello stabilimento di produzione.
Sono d accordo con petizione su Change org
L’unica cosa da fare è comprare prodotti dove lo stabilimento di produzione è sito in italia.
Ciò non toglie che la ns politica abbia favorito l’emigrazione selvaggia delle aziende e marchi, a tal punto che l’attuale PdC va in una nazione a noi vicina (senza euro) e non contraddice il suo Primo Ministro quando invita gli imprenditori italiani a trasferirsi la.
Questa è colpa di 1)mala politica che al bene del paese non pensa minimamente e 2) noi italiani che per risparmiare ci siamo buttati su prodotti a basso costo provenienti da chissà dove.
Ora ne stiamo pagando il prezzo = delocalizzazione selvaggia verso nazioni europee con maggiori sgravi fiscali dei nostri… e noi per lavorare ci tocca emigrare proprio in queste nazioni.
La problematica è seria ma ormai i buoi sono scappati dal recinto. L’unico incentivo sarebbe sgravio fiscale per il ritorno in patria dei marchi e produzioni.
E’ anche colpa nostra. Cominciamo a comprare solo i prodotti con l’indicazione dello stabilimento di produzione.
Eccerto, un disoccupato che fa fatica ad arrivare alla fine del mese, per salvare l’Italia, compra il prodotto italiano che costa di più. Suvvia, un minimo di coscienza economica… La gente, GIUSTAMENTE, compra quello che gli conviene comprare cioè il prodotto col miglior rapporto qualità/prezzo, piuttosto perché non ci chiediamo per quale motivo produrre la pizza in Germania costa meno che in Italia? Il problema è tutto lì, e la risposta è perché l’euro è una moneta che va bene per la Germania (è sottovalutata) e male per noi (è sopravvalutata).
Non tutti fanno questo ragionamento però.
Non dico di comprare sempre italiano, ma è un mio diritto sapere dove viene fabbricato un prodotto e ritengo un sopruso privarmi di questo diritto. Togliamoci dalla testa che i prodotti italiani siano sempre i migliori per il solo fatto di essere prodotti in Italia; ci sono mozzarelle tedesche migliori di certe mozzarelle nostrane, oli spagnoli o greci migliori di certi oli fatti in Italia, per non parlare del rapporto qualità prezzo.Il consumatore deve avere il massimo delle informazioni per poter scegliere liberamente.
Attenzione, non è detto che il prodotto fatto all’estero sia peggiore del nostro. Molte aziende Italiane per rimanere sul mercato risparmiano su tutto, in primis sulla formazione del personale. inoltre in Italia avere stabilimenti all’avanguardia è molto costoso rispetto ad altre nazioni Europee. Ormai siamo diventati “fuori mercato”. E con la politica dei prezzi al ribasso l’Italia è un Paese che andrà a morire. Teniamoci stretti DOC, DOCG, IGP, DOP e compagnia bella.
Per vostra conoscenza, da qualche tempo Trevisanalat ha messo sul mercato (tramite LD market e forse altri) mozzarelle con etichetta recante 2 possibili stabilimenti di produzione, di cui uno in Germania, dal quale pare provenga buona parte della produzione. Il prezzo è passato da 2,69 per conf. da 3 mozzarelle da 125g/cad. (prodotte in Italia) a 1,99 per 4 mozzarelle da 125g/cad. prodotte in Germania. La qualità del prodotto tedesco, da me verificata, risulta inferiore rispetto a quello italiano.