È del 16 gennaio il rapporto di Human Rights Watch (HRW) sulla rapina delle terre in Etiopia. A riconferma di quanto già noto, la Ong internazionale dà atto della deportazione in corso di circa 70.000 persone, strappate con la violenza dalle loro abitazioni e condotte verso fantomatici villaggi senza cibo, terra, educazione e né presidi sanitari. Nel rumoroso silenzio della comunità internazionale. 

Ilfattoalimentare.it ha trattato più volte la rapina delle terre in Etiopia. Abbiamo riportato i rilievi della Banca Mondiale e dello Oakland Institute, i nomi degli investitori stranieri, le testimonianze. Il rapporto di HRW, “Waiting Here for Death: Forced Displacement and ‘Villagization’ in Ethiopia’s Gambella Region”, elimina ogni dubbio, se mai ve ne fossero stati. Di che si tratta? 

Abusi fisici, violenze e minacce perpetrate da milizie governative. Per forzare due interi popoli, le comunità Anuak e Nuer della regione di Gambella, a lasciare per sempre le loro fertili terre e migrare verso l’epicentro della carestia. Il governo di Addis Abeba ha ceduto in blocco quelle terre a potenze economiche straniere, e deve sgombrarle per adempiere i contratti. 

Il rapporto si basa su oltre un centinaio di interviste raccolte tra maggio e giugno scorso in Etiopia e in Kenya, nei campi profughi di Dadaab e a Nairobi, ove molti dei deportati di Gambella hanno cercato rifugio. Interviste come questa: «Mio padre è stato ucciso per essersi rifiutato di andare via, insieme ad altri anziani. Sono nato qui, i miei figli sono nati qui – aveva detto – e ora sono troppo vecchio per spostarmi, rimarrò qui.” I soldati lo hanno colpito coi calci del fucile, ed é morto».
«I contadini della nostra ‘woreda’ (il distretto amministrativo locale) non volevano lasciare le loro terre. La ‘woreda’ ha comunicato alla regione il loro rifiuto. Il governatore ha chiesto allora al presidente della ‘woreda’ di investigare, e lui ha provveduto: ‘Si, governatore, stanno resistendo. Cosa dobbiamo fare?’. Il governatore gli ha ordinato di sospendere i ‘Development agents’ dal loro incarico, annunciando l’invio delle truppe armate. Ciò é infatti accaduto.» (dichiarazione di un ex-funzionario del distretto, giugno 2011). 

«Il governo ci ha costretti a venire qui a morire, proprio qui” ha spiegato un anziano agli operatori di Human Rights Watch. “Vogliamo che il mondo sappia che il governo ha portato il popolo Anuak qui a morire. Non ci hanno dato cibo e hanno dato via la nostra terra agli stranieri, così non potremo neppure tornare indietro. Da tutti i lati la terra è stata data via così noi moriremo qui, isolati.»

Tra il 2008 e il 2011, l’Etiopia ha ceduto almeno 3,6 milioni di terre, una superficie pari all’estensione di un Paese europeo come l’Olanda. Offrendo altri 2,1 milioni di ettari agli investitori interessati. In violazione della stessa costituzione etiope, e in barba ai diritti umani sanciti sulla carta delle convenzioni internazionali.

I donatori internazionali, tra i quali figurano USA, Banca Mondiale, Regno Unito e Unione Europea, asseriscono di non essere direttamente coinvolti nei così detti:  ‘villagization programs’ sotto le cui insegne il governo etiope – con la falsa promessa di ricollocare le popolazioni in nuove aree provviste dei servizi essenziali – procede all’evacuazione dei suoi cittadini, guarda caso, proprio dalle aree cedute agli stranieri.

Anzi, per ripararsi da eventuali chiamate in correità, i donatori avrebbero ‘accertato’ che i trasferimenti delle popolazioni sarebbero avvenuti con il consenso di queste ultime. Un dato che contrasta con le rilevazioni sul campo eseguite da Human Rights Watch. L’organizzazione chiede perciò ai Paesi donatori di assumersi le proprie responsabilità, in linea coi rispettivi doveri assunti nelle convenzioni internazionali, e intiminano al governo etiope di rispettare i diritti delle popolazioni indigene, degli esseri umani, delle donne e delle famiglie.

Il paradosso è che gli aiuti internazionali possano di fatto venire utilizzati, in via indiretta, per finanziare le deportazioni che vanno sotto la copertura dei sopraccitati ‘villagization programs’. È quanto afferma Jan Egeland, direttore per l’Europa di HRW.

Tanto criminale è l’abominio, quanto lo è l’indifferenza.

 

Dario Dongo

Per approfondimenti sul land-grabbing in Etiopia:

– Rapporto Human Rights Watch, 16.1.12.

– Precedenti articoli de ilfattoalimentare.it:

 

– Servizio di The Guardian (UK), 21.3.11.

– Relazione World Bank, 7.9.10.

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3 Commenti
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Silvia
Silvia
29 Gennaio 2012 17:31

C’è qualcosa che ognuno di noi, nel proprio essere piccolo, può fare? Di fronte a realtà abominevoli come questa, oltre all’incredulità per qualcosa che sa di fantascientifico, ma che ancora una volta invece dà la percezione di cosa l’uomo possa esser capace di fare, si avverte un forte senso di rabbia e impotenza…

Dario
Dario
31 Gennaio 2012 12:53

Un primo, piccolo gesto che si può compiere è sottoscrivere la petizione rivolta al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, per fermare il land-grabbing in Etiopia: http://www.thepetitionsite.com/7/stop-forced-relocations-ethiopia

daniele
daniele
17 Agosto 2012 21:14

damande:
– esiste la proprietà terriera in etiopia?
– queste 70.000 persone cosa coltivavano? su quali estensioni?
– tutti questi milioni di ettari sono donati o dati in affitto a lungo termine con quali vincoli? cosa metteranno a coltura queste aziende? cotone? grano? caffè?
– l’etiopia ha dei divieti all’export? nel senso che se queste aziende coltivassero grano, l’Etiopia potrebbe esportare dovesse anche sussistere momentaneamente una convenienza a farlo(forex)?