Da qualche settimana su Il Fatto Alimentare è in corso una discussione sull’origine del grano impiegato per produrre la pasta che riporta la dicitura “made in Italy”. Lettori e aziende si confrontano, cercando di capire se a definire l’origine di un prodotto sia la provenienza delle materie prime, il luogo di lavorazione, o entrambi. Ecco la seconda lettera che abbiamo ricevuto da De Cecco in risposta al commento di un lettore.
In primo luogo, la Legge 350/2003 e successive modifiche, per quanto riguarda l’etichettatura dei prodotti alimentari, confligge con una norma comunitaria, cioè il Reg. CE 1169-2001, che all’art.26 tratta la stessa materia e che, a livello di forza di legge, è superiore a qualsiasi norma nazionale. Avendo poi la norma comunitaria natura regolamentare, essa è direttamente applicabile e, quindi, è a tutti gli effetti LEGGE in ciascuno Stato membro. Di conseguenza, le disposizioni nazionali non armonizzate con essa, ed anzi confliggenti, non sono applicabili.
In secondo luogo, anche laddove si volesse applicare la citata LEGGE e le successive modifiche ad essa apportate dal Decreto-Legge 83/2012, ed anche riallacciandosi alla differenza fra ORIGINE e PROVENIENZA, il fatto che la bandiera italiana e la dicitura “Made in Italy” implichino automaticamente che tutte le materie prime (e non solo il prodotto finito) debbano essere 100% italiane, è soltanto una possibile interpretazione che non si ricava dalla lettura della normativa.
Da quest’ultima infatti non emerge l’espresso divieto ad utilizzare riferimenti all’Italia in tutti i casi in cui le materie prime non siano del tutto italiane, né emerge in questo caso l’obbligo di specificare la diversa origine delle materie prime.
Ciò che la norma vieta è la “fallace indicazione dell’uso del marchio, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana […] senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto”.
Ma sull’etichetta De Cecco non sono presenti indicazioni di tipo fallace, perché la scritta è semplicemente “Made in Italy” (che vuol dire “Prodotto in Italia”, e che per un prodotto trasformato è sinonimo di “Trasformato in Italia”), non invece “100% italiano” e nemmeno “prodotto italiano”.
Inoltre, non vi è un uso del tricolore associato ad immagini tali da poterlo associare all’origine delle materie prime, giacché esso non viene associato a spighe di grano, e/o a disegni tipicamente evocativi dell’Italia o di una sua regione. Da una bandiera e dalla scritta “Made in Italy” non si può desumere che il grano sia italiano, ma si desume semplicemente che il prodotto è italiano, come è vero.
In terzo luogo, occorre considerare che i prodotti alimentari sono un vasto mondo, costituito da decine e decine di categorie merceologiche per le quali la circostanza che ad incidere sulla qualità sia più l’origine del prodotto finito che quella della materia prima va valutata di volta in volta.
Nel caso della pasta, è certo che l’Italia sia famosa in tutto il mondo per la capacità e la perizia delle proprie aziende nella trasformazione, cioè nella produzione ed ottenimento del prodotto finito, non certo per la qualità e per l’origine della materia prima. Nel caso della pasta insomma il valore aggiunto sta nella qualità del prodotto finito determinata dal know how italiano necessario a produrlo, non nell’origine del grano.
E allora pretendere di vietare la scritta “Made in Italy” e il tricolore sulla pasta solo perché il grano non è o non è del tutto italiano, equivarrebbe a disinformare il consumatore su una qualità del prodotto finito molto importante per il suo acquisto, facendogli magari anche pensare, nella peggiore delle ipotesi, che il prodotto sia stato trasformato all’estero. Cosa che danneggerebbe non solo il produttore, ma anche il consumatore stesso.
Giovanni Alleonato – Direttore marketing De Cecco
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
La De Cecco, a mio parere, ha ragione nella sua interpretazione in diversi punti, ma buona parte del Reg. CE 1169-2011 compreso l’art.26 si applica dal 13 dicembre 2014.
Saluti
Probabilmente era più corretto citare il Reg CE 450/2008. In ogni caso il risultato non cambia, come ho scritto anche nell’altro articolo, il Reg. CE è comunque gerarchicamente superiore ad una legge nazionale.
Condivido tutto quanto scritto da De Cecco in particolare il fatto che il concetto di Made in Italy applicato all’origine delle materie prime sia distorto. La realtà è comunque che a breve dovrebbe essere presentata (se già non è stato fatto, visto che quella prevista per le carni utilizzate come ingrediente è già disponibile e l’ho linkata in un paio di articoli qui sul Fatto Alimentare) dalla commissione europea, una relazione sull’impatto dell’indicazione obbligatoria dell’origine in alcune tipologie di prodotti (Reg. CE 1169/2011 art. 26 comma 5).
Sulla base di queste relazioni l’UE deciderà sull’obbligatorietà o meno dell’indicazione dell’origine e se del caso, con che modalità.
Mi correggo: la relazione di cui parlavo è prevista entro il 13 dicembre 2014, non 2013.
Produrre italiano in senso di assemblaggio viene confuso con origine materie prime. Produrre pasta italiana se la si confonde con tecnologia Italiana equivale a produrre in ogni parte del mondo se la materia prima non è certificata. Quindi in Canada si produce pasta italiana con grano canadese come in Italia si produce pasta con aggiunta di grano canadese. Le line e la tecnologia è italiana e quindi è un prodotto Italiano? Ritengo che gli italiani dovrebbero vendersi il made in italy come qualità e certezza di non essere copiati. Il mercato richiede questo. Per la pasta la Ghigi facente parte dei consorzi agrari garantisce pasta con 100% di grano italiano. Quindi è possibile senza giocare su tante cose riguardante bandiere e non altro. Per il pomodoro vale lo stesso. Realizzato con pomodori italiani senze tante furbate. Stesso dicasi per formaggi, salumi e quant’altro. Non italiani potremmo vivere di rendita se esportassimo il vero made in italy. Mi dispiace però ammettere che gli italiani siamo ancora all’epoca dei comuni e delle furbate mentre in mondo ci divora e ci distrugge quel made in italy che non è copiabile in quanto la terra per coltivare è qui e non in altre parti del mondo.
Scusatemi il tono ma sono italiano e ritengo che l’Italia e gli ialiani potremmo restare i primi per la qualità e la certezza della produzione.
Saluti
Se quello che dice Bartolo si realizzasse domani, produrremmo il 50% in meno di olio e anche di quote esportate, il 30% in meno di pasta e anche di quote esportate, il 100% in meno di bresaola della Valellina, il 100% in meno di caffé….. Tutto deve essere chiaro sono d’accordo.
La legge non si discute, ma come consumatore preferirei che il tricolore evidenziato sulla confezione fosse abbinato ad prodotto italiano al 100% ovvero materia prima e lavorazione, sennò non ha ragione di esistere perchè si tratta di un’indicazione che vuol dire tutto e niente.
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Circa il Made in Italy credo che l’errore di fondo sia la valenza che si da alla scritta. Dizionario alla mano “Made in Italy” = “Fatto (Prodotto) in Italia” e su questo non ci piove.
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Nel mio settore di produzione (non alimentare) alcuni clienti richiedono sulla fattura la dichiarazione che l’articolo venduto sia prodotto in Italia.
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L’articolo è effettivamente prodotto ovvero lavorato in Italia, tuttavia la materia prima (acciaio inox) nella maggior parte dei casi è di origine europea. Ma non devo scrivere lavorato in Italia con materiale svedese.
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Diverso è il caso di alcuni paesi arabi dove invece si chiede la garanzia che non sia stato utilizzato nulla che provenga da Israele.
Buonasera,
Trovo che il dott. Alleonato nato abbia correttamente ed esaustivamente spiegato motivazioni e diritto aziendale di presentare il prodotto con la veste attuale.
Potrebbe essere così gentile da ipotizzare un prezzo di Pasta de Cecco da grano italiano? Una fetta di mercato non irrilevante potrebbe essere interessata, non trova?
voglio spendere un commento a favore della “De Cecco” di cui compro sia la pasta che l’olio da oltre 10 anni:
Avevo un dubbio sulla qualità di una pacchetto di pasta comprato in un noto centro commerciale, contattai l’azienda e in meno di 24h vennero a ritirare il pacchetto di pasta per analizzarlo, andarono a controllare quel centro commerciale, si scusarono (anche se la colpa era sicuramente del centro commerciale) e mi inviarono altra pasta in sostituzione.
Qualche anno fa accadde una cosa analoga ad un mio caro amico, con un altro pastificio (non so se posso scrivere la marca…), comunque se ne fregarono.
Continuerò a comprare pasta e olio della “De Cecco” perché, oltre ad avermi dimostrato professionalità e cortesia, è un azienda di cui mi fido! La provenienza del grano è davvero relativa di fronte a tanta efficienza, non a caso, nel 2010, questo sito analizzò alcuni olii di oliva e quello della De Cecco (DOP Colli Assisi) risultò tra i migliori.
Menomale che era DOP , ovvero di origine 100% italiano
che la pasta sia di ottima qualità non si discute, si potrebbe indicare “prodotta in italia” “con grano di origine xxx/yyy+z”
forse si sveglierebbero troppe coscienze …
La De Cecco usa grano di provenienza americana che arriva con una nave di proprietà dell’azienda al porto di Napoli.
Per il resto non si discute sulla qualità della pasta.
Concordo sulla qualità della pasta. All’interno della loro fascia di prezzo solo poche riescono a fornire un prodotto della stessa qualità. Sul “made in Italy” come è possibile essere ingannati sulla PROVENIENZA delle materie prime se in italiano significa “realizzato in Italia”? Dispiace tuttavia che nell’argomentazione dell’azienda si faccia riferimento ad un Regolamento (1169/2011) che, a mio parere, non può essere ancora preso in considerazione come fonte normativa di rango superiore.
Ho letto con molto interesse la corrispondenza che avete pubblicato rispetto al termine made in Italy e alla pasta De Cecco e devo dire che sono molto d’accordo con le osservazioni di Giovanni Alleonato.
D’altronde non serve un esperto per capire che non siamo autosufficienti in quasi nessun prodotto, se non per la carne di pollo, e che la situazione andrà sempre peggio un po’ per la scarsa disponibilità di risorse, un po’ per la prossima politica comunitaria che introdurrà in modo forte il greening. Purtroppo però stiamo assistendo sempre più ad una pericolosa spirale discendente rispetto alla percezione che il consumatore medio italiano ha dell’alimentazione e dell’italianità dei prodotti. Ormai è più una questione di moda che di reale gusto dei prodotti. Non mi stupirei che alcuni dei vostri lettori che prima esaltavano la pasta italiani, ora cominceranno ad immaginare che la pasta De Cecco non è così tanto buona. In più ci si mettono anche i sindacati agricoli, come recentemente la Coldiretti, che tendono a puntare sulla reazione della gente piuttosto che alla vera cultura, piuttosto che dare vere informazioni. L’agricoltura come moda non permette più di parlare in modo vero dei problemi e delle risorse che ci sono lasciando spazio a distorsioni o scelte imprenditoriali che però non possono pretendere di “fare” l’agricoltura futura e nemmeno italiana. Vi ringrazio per la discussione che avete sollevato, poichè credo che ciò che ha detto il responsabile De Cecco sia capitale.
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Andrea Pesenti
Consumatore preferirei che il tricolore evidenziato sulla confezione fosse abbinato ad prodotto italiano al 100%
Cara De Cecco io ti boicotto e compro ….
http://www.irisbio.com/pagine/astra.html
Sarebbe sicuramente un valore aggiunto l’utilizzo di grano iItaliano, e chi scrive vive a Rieti dove Strampelli contribuì a migliorare la qualità del grano non solo Italiano, ma siamo nel 2014 e ci piaccia o no le materie prime seguono logiche economiche e politiche che vanno al di là della nostra possibilità di intervento. Mi accontenterei, quindi, che queste materie prime rispondessero a requisiti qualitativi almeno equivalenti a quelli Nazionali ad esempio no OGM , no pesticidi, e una cura particolare nel loro trasporto e conservazione, e non come ho visto fare in alcuni servizi televisivi. Saluti
Pasta De Cecco ha commentato il tuo post.
Pasta De Cecco ha scritto: “In natura non esiste un grano ideale e la nostra azienda, in virtù della sua esperienza storica, seleziona un mix di grani duri pregiati non solo Italiani, ma anche esteri (australiani, francesi e principalmente americani) non in base alla varietà, ma in base ai migliori parametri pastificatori, tra cui il contenuto proteico e la qualità del glutine. Solo utilizzando grani di altissima qualità e con le caratteristiche suddette si riesce ad ottenere e garantire alla pasta la tenacità e la tenuta in cottura che contraddistinguono da sempre il nostro prodotto. Questa scelta è anche più costosa per noi in quanto paghiamo il grano circa il 30% in più rispetto al prezzo del grano italiano. Tutti i grani da noi utilizzati rispettano rigidissimi standard qualitativi e sono tra i più pregiati in commercio. Questo per garantirvi sempre prodotti non solo eccellenti, ma perfettamente salubri. Saluti. Rif. 13/EC”
….ecco vede Signor De Cecco? la sua risposta è quel genere di conversazione tutta italiana in cui dico e non dico.Eppure la mia domanda è semplice anche a fronte della sua non risposta,quindi proverò a riformularla con parole ancora più comprensibili.
Per quale motivo non indicate la provenienza delle materie prime? Perchè,dati gli ottimi risultati, continuate ad occultare un’aspetto del vostro lavoro che ,a vostro dire,è motivo di pregio?
Parlando in termini di marketing non crede sarebbe più producente affrontare il consumatore in un ottica di totale fiducia e trasparenza? io come tale diffido di chi mi vende mezze verità e ringrazio siti come questo che m’indirizzano verso un consumo più consapevole.
Sig.ra Paola, la risposta è semplice: non indicano la provenienza perchè non sono obbligati a farlo e perchè il farlo non porterebbe loro alcun vantaggio in termini di vendita visto che al consumatore è stato sempre raccontato che il grano italiano è migliore di tutti gli altri…
Tirare in ballo la trasparenza è un pretesto: vuole sostenere che quando sulle confezioni di pasta nessuno metteva le bandierine allora il consumatore sapeva che il grano non era italiano, mentre adesso che mettono le bandierine il consumatore è ingannato? e ingannato da cosa? dal non conoscere la corretta traduzione di “Made in…”? La verità è che il consumatore ha sempre dato per scontato, sbagliando, che il grano fosse italiano, sia nell’epoca pre-bandierine che nell’epoca delle bandierine. Ed è così ancora: hanno fatto vedere delle interviste in cui veniva chiesto a chi faceva la spesa se ritenevano che la farina di grano tenero acquistata (senza bandierine e indicazioni varie) fosse italiana o no. Naturalmente tutti hanno risposto convinti che fosse italiana. Lo stesso è successo con altri prodotti.
Il dare per scontato a torto, che un prodotto sia italiano a prescindere, come può essere attribuibile a mancanza di trasparenza di chi vende? A maggior ragione se non esiste alcun obbligo di indicazione?
Quando e se la normativa cambierà, tutti metteranno l’origine del grano e tutti pagheremo di più per avere lo stesso prodotto di prima. Fino ad allora chi ritiene indispensabile conoscere l’origine della materia prima opti per i prodotti di quelle aziende che considera trasparenti in tal senso visto che ci sono. Non vedo la necessità di fare le pulci ad un’azienda che stando alla normativa in vigore è in regola e che per quanto ci si ostini a sostenere il contrario, vendendo pasta di qualità (sempre che ora che si è scoperto che il grano non è italiano non si voglia mettere in dubbio anche quella) all’estero, contribuisce a tenere alto il “made in Italy” che qui si difende solo con le parole.
@Bartolo
La pasta è italiana se viene prodotta qui, da aziende italiane che lavorano in Italia. Producendo qui occupazione e reddito, pagando qui le tasse, la ricchezza che generano può essere ridistribuita in modo tale che diventi un vantaggio per tutti. Questo non solo valorizza il Made in Italy, ma porta vantaggi per tutti. Chiaro che se poi lo Stato non è in grado di ridistribuire il reddito i vantaggi non ci sono, ma non è certo colpa delle aziende. Per contro, diminuire le quantità prodotte come accadrebbe nel suo scenario significa non soddisfare la domanda dell’export che se ricordo bene è due volte maggiore del consumo interno. Questo vuol dire che quella domanda verrà soddisfatta da qualcun altro, visto che secondo lei la pasta la può fare chiunque. Se questo è il suo piano di difesa per il Made in Italy ne prendo atto…
Lei dice che il mercato chiede pasta realizzata con grano 100% italiano. Quale mercato, se poi il marchio che identifica la pasta all’estero è Barilla, tanto per fare un esempio?
Faccio una precisazione. Se acquisto un prodotto elettronico, un’auto, un telefono,… e lo produco in Italia ho il made in Italy e creo reddito in Italia. Se compro un prosciutto italiano di carne italiana e lo pago per questo è ok. Se il prosciutto e italiano ma la coscia è rumena, croata,… e la devo pagare come italiana non credo sia corretto. Se per la pasta è riportato 80% grano italiano, 20% canadese penso sia corretto pagarlo per questo e non come 100% grano italiano. La differenza è che gli alimento li mangiamo mentre le auto no.
L’etichettatura serve a noi consumatori e i nas, asl,… devono garantire il rispetto delle regole con verifiche.
Ma chi l’ha detto che il grano canadese costa di meno! La coscia italiana non è un modello standard. La coscia di prosciutto deve essere italiana se lo prevede il disciplinare del prodotto Dop ma soprattutto deve rispettare certi standard di qualità. Non basta essere Made in Italy per essere cosce di qualità. La qualità non è una caratteristica legata all’origine ma al tipo di allevamento.
Basterebbe specificare che la coscia o il grano o le olive sono italiane o rumene, turche, canadesi, australiani, ecc. Se sullo scaffale compro i biscotti si da dove viene lo zucchero, il latte,…. perché noi italiani non scriviamo quale degli ingredienti è italiano? Ritengo che il consumatore debba sapere l’origine per pagarlo o sceglierlo. Non ho detto che il grano canadese sia meglio o peggio di quello italiano. Voglio solo saperlo chiaro e senza sigle. Semplice. Perché complicarsi la vita.
La risposta è altrettanto semplice. Non si scrive perchè non è obbligatorio farlo. Come dice lei, perchè complicarsi la vita?!
Chi ritiene fondamentale conoscere l’origine delle materie prime che compongono un prodotto opti per quelle aziende che questa informazione la danno spontaneamente. Ci sono. L’Europa deciderà se introdurre tale obbligo o meno. Ma la gente deve essere informata correttamente su tutto, anche sulle conseguenze di tale obbligo.
Dia un’occhiata alla relazione della commissione Europea che ha valutato quale potrebbe essere l’impatto dell’obbligo di indicazione dell’origine per la carne utilizzata come ingrediente (l’ho linkata in almeno 2 discussioni forse 3). Lo scenario che riassumo in 2 parole è: potenziale aumento dei costi per le aziende fino al 50% in più (il cui 90% ricadrebbe sul consumatore), diminuzione dei consumi e conseguentemente dell’occupazione, conseguenze sull’efficacia dei controlli ufficiali (con possibile introduzione di nuove tasse per reperire i fondi necessari).
E questo è lo scenario per la carne per la quale in parte l’indicazione dell’origine è già obbligatoria. Non faccio fatica ad immaginare che l’impatto per tutti gli altri prodotti dove si dovrebbe cominciare da zero, potrebbe essere anche maggiore.
Il problema è che queste cose non le dice nessuno…men che meno quelli che al Brennero si autoproclamano paladini del Made in Italy, pretendendo “chiarezza e trasparenza” quando sono i primi a non darla…
Sarei curioso infatti di sapere quanti consumatori continuerebbero a pretendere l’indicazione dell’origine se sapessero che pagherebbero di più lo stesso prodotto di prima, senza avere in cambio maggiori garanzie, ma anzi, col rischio di averne ancora meno dal punto di vista della sicurezza alimentare. Senza tirare in ballo la diminuzione dei consumi e dell’occupazione, che di questi periodi non sarebbe proprio da trascurare…
L’Europa deciderà. Ma ho l’impressione che la scelta che verrà fatta alla fine scontenterà sia i consumatori che le aziende…