Vivere per un anno senza olio di palma. Questo l’obiettivo che, a luglio 2011, si era posto Adrien Gontier, allora studente di geochimica all’Università di Strasburgo e appassionato di questioni ambientali. Passati 12 mesi, però, l’impegno – documentato da un accuratissimo blog (purtroppo solo in francese) – è continuato e prosegue tuttora. «Non ho ancora trovato prodotti contenenti olio di palma che seguano davvero i valori sociali e ambientali in cui credo, dall’autonomia degli agricoltori al giusto compenso, alla protezione della biodiversità» ha scritto Gontier nella pagina di presentazione della sua iniziativa. E dunque la sua vita senza olio di palma continua.
Tutto è cominciato dalla lettura di un articolo sull’esperienza di una giornalista americana che per un anno aveva cercato di evitare qualunque prodotto “Made in China”. L’articolo aveva stimolato in Gontier, che già si considerava un consumatore consapevole, ulteriori riflessioni sull’impatto che i consumi hanno sull’ambiente, sulla società, sulla salute dei singoli. La sua attenzione si è concentrata in particolare sull’olio di palma, responsabile di gravi devastazioni ambientali in diverse aree tropicali, e ormai onnipresente, spesso in grandi quantità, nei prodotti alimentari industriali. Nel suo primo post, Gontier cita per esempio una crema spalmabile a base di cacao, nocciole e latte (vi ricorda qualcosa?), ma che in realtà contiene molto più zucchero e grasso di palma di quanto i messaggi pubblicitari lascino intendere.
Presa la decisione di evitare del tutto l’olio di palma Gontier, forte anche delle sue conoscenze di chimica, si lancia in un’analisi scrupolosa delle etichette e in una serie di confronti e discussioni con amici e parenti, divisi tra indifferenti, curiosi e sostenitori. Le prime azioni da “consumatore informato” vengono di conseguenza: via dal cassetto della scrivania le tanto amate merendine al mirtillo e la confezione di noodles istantanei. Via dalla dispensa di casa i paté vegetali e il purè di patate in fiocchi, che contiene un additivo alimentare derivato proprio dall’olio di palma. E via anche lo shampoo, la schiuma da barba, il detergente per la cucina, perché anche tutti questi prodotti contengono sostanze ottenute a partire dal grasso tropicale.
Fare la spesa al supermercato diventa un’impresa, perché in certe categorie i prodotti privi di olio di palma sono pochissimi, come ha testimoniato anche Il Fatto Alimentare nella sua serie di inchieste su biscotti e merendine. E non ci sono scorciatoie per trovare alimenti “senza olio di palma”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il marchio biologico non è una garanzia (un prodotto può benissimo essere bio e contenere olio di palma) e spesso una stessa marca può proporre linee di prodotti differenti, con e senza il grasso in questione. Per aiutare altri consumatori che vogliano fare scelte consapevoli, Gontier propone sul blog un elenco di prodotti contenenti grasso di palma o derivati (magari sotto forma di additivi), oltre a una lista di “trucchi” per scoprirne la presenza e a consigli semplici per farne definitivamente a meno. Sempre fondamentale leggere bene le etichette e, all’occorrenza, chiedere direttamente ai produttori, per email o per telefono.
Nel tempo, il blog è diventato una sorta di enciclopedia critica sull’olio di palma: dalle notizie sull’impatto ambientale agli approfondimenti sugli effetti per la salute, dalle novità in ambito legislativo alle descrizioni tecniche sul ruolo di questi grasso nell’industria alimentare o cosmetica. E non mancano anche ricette di cucina e consigli pratici, per esempio su come produrre il sapone o pulire casa con il bicarbonato. Già, perché per quanto riguarda la vita quotidiana, la soluzione di Gontier passa spesso per l’acquisto di prodotti freschi locali e l’autoproduzione: «Acquistare frutta, verdura, legumi e cereali da produttori locali e cucinarli da sé è l’unico modo per essere davvero certi di quello che si mette nel piatto e per controllare l’impatto dei nostri consumi» dichiara.
Ma qual è il senso profondo di questa scelta? Il rischio di apparire romantici eroi ecologisti, in lotta solitaria (e magari inutile) contro lo strapotere delle multinazionali alimentari, c’è. E Gontier ne è consapevole: «Non credo certo che l’olio di palma sia responsabile di tutti i mali del mondo, ma non posso chiudere gli occhi davanti al fatto che il modo in cui oggi è prodotto, almeno nella maggior parte dei casi, ha delle conseguenze negative che sono reali e decisamente non trascurabili – scrive –. Non intendo diventare ossessivo, né proporre lotte o boicottaggi, ma solo sforzarmi di pensare ai miei consumi, in modo che possano avere un impatto il più positivo possibile».
Certo, sono già disponibili certificazioni di sostenibilità, utilizzate da alcuni produttori dell’industria alimentare, ma per Gontier non sono ancora una buona soluzione. «Per il momento la mia fiducia nella filiera è bassa, e mi invita a evitare anche queste proposte, e a diffidare da certi annunci. Mi rifiuto di consumare un olio di palma dichiarato “etico” da aziende che in passato hanno calpestato i principi in cui credo, o addirittura continuano a farlo per altre linee o in altri settori di produzione».
Valentina Murelli
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giornalista scientifica
buon articolo, grazie
c’è anche “le petit guide vert (piccollo libro verde)” in Inglese (http://vivresanshuiledepalme.blogspot.com/p/the-handy-eco-guide-to-palm-oil.html)
Adriano, anche il quarto italiano!
Ciao
Qualcuno sa come riconoscere Olio di palma e derivati negli ingredienti dei prodotti per il corpo?
grazie
dove c’è scritto palmitato o palmitate in inglese sono tutti derivati dell’acido palmitico, quindi molto probabilmente dall’olio di palma.
Purtroppo questi componenti sono in quasi tutti i prodotti cosmetici a cominciare ( come ingrediente) dal sapone neutro a finire come additivo ( viatamina A palmitato) nelle creme di bellezza.
Evitare l’olio di palma si può e si deve! Non è affatto complicato, basta avere un po’ di accortezza e buon senso negli acquisti. 🙂
non capisco questa demonizzazione dell’olio di palma, se è vero che dietologicamente da dei problemi quando il consumo è elevato, dall’altra la tesi della sostenibilità mi risulta debole.
Dietologicamente contiene solo acidi grassi saturi, ed il problema si pone generalmente a chi fa largo uso di prodotti da forno industriali, ma per il resto è un grasso come tanti; daltronde il burro ha il colesterolo, le margarine sono idrogenate….. insomma ogni grasso ha il suo problema.
Per la sostenibilità occorre dire che nei paesi dove si coltivano le palme da olio, esse rappresentano un reddito ( a volte il solo), qualora il mercato non richieda più tale prodotto, per mantenere il reddito si studieranno altre coltivazioni.
Dubito che tra le colture da reddito ci siano le foreste per gli oranghi, quindi qualunque coltura da reddito che sia riso, miglio, palma, soia, o magari olivo, la sostenibilità per gli oranghi non cambierebbe.
Allora se si fa un discorso salutistico la riduzione dell’olio di palma è un conto, se si discute della sostenibilità, lo facciamo da popolo ricco e talebano che fa la predica al popolo povero, insomma il forte che comanda il debole.
Qualcuno dovrebbe provare a vivere come un malese, magari campando della raccolta dei frutti della palma.
No, con questa logica dovremmo smettere di mangiare parecchia frutta tropicale e pure il riso, magari anche della canna da zucchero; tutte le coltivazioni tolgo un habitat.
La sostenibilità è una strada lastricata di buone intenzioni.
Il problema è che l’olio di palma ha letteralmente invaso la nostra dieta
Otre ad aver invaso la nostra dieta è un beneficio solo per gli industriali! 🙁
Il “controcorrente” dice: “No, con questa logica dovremmo smettere di mangiare parecchia frutta tropicale e pure il riso, magari anche della canna da zucchero; tutte le coltivazioni tolgo un habitat.
La sostenibilità è una strada lastricata di buone intenzioni.”
Infatti questo modello di consumismo è totalmente sballato e suicida per noi borghesi oltre che omicida per il terzo mondo: animale,umano e vegetale!
Biologico e produzioni locali con filera corta sono le principali soluzioni etiche e sostenibili, aggiunte ad una forte riduzione del consumo di proteine animali!
Non lo dico io…ma buona parte del mondo scientifico consapevole non schiavizzato dall’industria.
Per cui caro “controcorrente”…anzichè sciorinare frasi del tipo: “coltivano le palme da olio, esse rappresentano un reddito (a volte il solo)”…informati bene nel capire che tra le popolazioni locali dove sono insediate le multinazionali del cibo, c’è poco profitto se non nulla da guadagnare, anzi! La devastazione è in atto!
Roberto, a me pare che invece bio e filiera corta siano fette di mercato che possono sussistere solo se inserite nel modello di consumismo attuale. Per quanto riguarda la filiera corta, dubito che un paese possegga una vera autarchia alimentare, e quindi riesca a produrre tutto il necessario per sostentare in maniera completa la propria popolazione.Il problema che solleva Controcorrente è realistico. L’economia di alcuni paesi si regge praticamente solo su monocolture, e danneggiare la loro economia è il rovescio della medaglia della scelta “sostenibile” in senso ambientale.
Sollevare tale questione non significa essere d’accordo col modello produttivo attuale.
C’è da dire anche però che non tutti possono permettersi di compiere questo genere di scelte in cucina, perché i prodotti con olio di palma sono paradossalmente più economici (a discapito dell’ambiente, è chiaro), e non tutti possiamo permetterci di spendere di più per il bene del pianeta, compiendo scelte purtroppo obbligate. Per il biologico, poi, non ne parliamo (stessi contenuti nutrizionali ma prezzi elevatissimi a rese più basse, che riuscirebbero a sfamare solo chi può permettersi di pagarlo; io credo che sia più un brand che una scelta consapevole).
Ad ogni modo credo piuttosto che la consapevolezza si costruisca più con una corretta educazione alimentare che altro. Se tutti mangiasseroun po’ più correttamente si ridurrebbe di gran lunga il consumo di olio di palma, semplicemente perché un pacco di biscotti durerebbe tre settimane invece di tre giorni.
Cara Luisella…hai detto una serie di stupidaggini in un colpo solo! E non sono io a contraddirti, ma tu stessa! A te pare, e credo infatti solo a te! Se vuoi puoi informarti meglio a riguardo, e non significa andare molto lontano.
I profitti ricavati dalle coltivazioni di olio di palma sono devoluti quasi interamente a beneficio delle multinazionali del cibo. Alle popolazioni locali restano le briciole, oltre che un ecosistema devastato. Se ti informi meglio noterai che oggi è in atto una controtendenza dell’industria alimentare per la sostituzione totale o parziale del famigerato additivo conservante proprio perchè, considerato il tanto clamore al negativo, loro per niente stupidi non desiderano beccarsi un buon autogol in termini di immagine e fatturati. Molti prodotti oggi in commercio lo hanno già tolto dalla produzione. Questo sito ha pubblicato una lista molto interessante ed utile. Poi di quale risparmio parli? Esso è contenuto nel 50/80% dell’assortimento secco industriale e stiamo anche parlando di grossi brand internazionali che abbracciano fasce prezzo medio alte. Hai idea poi che cosa significhi “monocoltura” in campo agricolo? Disastro totale! E non serve essere un agronomo per capirlo. Un semplice contadino può darti risposte più esaustive del sottoscritto. “Per il biologico, poi, non ne parliamo (stessi contenuti nutrizionali ma prezzi elevatissimi a rese più basse, che riuscirebbero a sfamare solo chi può permettersi di pagarlo; io credo che sia più un brand che una scelta consapevole)”…………..Tu sei una nutrizionista? Una biologa? Un medico? Un dirigente aziendale? Se così fosse gradirei una prova certa della “balla” che hai appena detto, grazie. Il biologico può essere l’unica soluzione veramente consapevole su salute e benessere. Chiditi perchè da anni viene schiacciato da industria corporativa e informazione diffamante. Prezzi alti? Ma leggi sullo scaffale? Le grandi marche sono più convenienti? E poi qui parliamo anche di cibo fresco integrale, soprattutto ortofrutta. Il “confezionato industriale” è poco nutriente e molto costoso. Per quanto riguarda la tua ultima ipotesi in merito ai consumi…sinceramente non ho capito niente su quale sia la tua opinione…! Credo tu abbia le idee un pochino confuse, niente di personale ovviamente. Si parla, ci si confronta e si discute. Cari saluti. 🙂
Secondo me ti sei confuso tu e non hai capito niente di quello che io e Controcorrente tentiamo di dirti perché ragioni per partito preso. Innanzitutto sul biologico non sono “io” a dire ciò (che comunque sono biologa, ma non ci interessa), ma faccio riferimento anche a questo interessante articolo di Dario Bressanini, laureato in chimica e di certo non l’ultimo arrivato in campo alimentare
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/11/18/dieci-vero-o-falso-sul-biologico/
il quale fa a sua volta riferimento a varie review pubblicate su riviste scientifiche.
Riguardo il costo, lo vedo coi miei occhi. È chiaro che sarebbe necessaria una accurata indagine statistica per valutare se è così su tutto il territorio italiano, ma se faccio la spesa di frutta e verdura la differenza sullo scontrino c’è eccome, e per me che sono una poveraccia la scelta è obbligata: non posso permettermi frutta e verdura biologici. La prossima volta che passo per il negozio bio ti registro i prezzi e te li paragono con quelli dell’egiziano sotto casa (in cui la roba di stagione è spesso a 0,99 €). Per quanto riguarda i biscotti e i prodotti da forno non ne parliamo proprio.
Altra domanda è la seguente: le rese tendenzialmente più basse dell’agricoltura biologica riuscirebbero a sostentare tutta la popolazione del pianeta quanto invece ci riesce una produzione che ricava di più dallo stesso appezzamento di terreno? Ecco perché affermo che probabilmente alle condizioni attuali il biologico da solo servirebbe a ben poco.
Se poi vogliamo farne una questione di complottismo mi ritiro proprio dalla discussione.
Che l’olio di palma sia in via di sostituzione non mi stupisce, tutto fa marketing, e se l’olio di palma viene additato come il demonio, e i consumi calano, un’azienda fa prima ad evitarlo che altro. Che i profitti dell’olio di palma vadano per lo più alle multinazionali del cibo ci sto. Ma questo vale per l’olio di palma come per molti altri prodotti agroalimentari in cui la longa manus delle multinazionali si estende e ne controlla il mercato. Che si fa? Boicottiamo tutto? Il discorso si estende anche al di fuori del discorso alimentare. E comunque non risolviamo il problema: sarà terribile, ma il malese di quei quattro soldi che gli dà la multinazionale ci campa, e se non sarà la palma sarà altro a fare sì che venga sfruttato, fosse anche la quinoa bio (che viene prodotta in Sudamerica, ma era tanto per dirne una).
Se un commercio che potrebbe potenzialmente arricchire gli abitanti poveri del mondo piuttosto li impoverisce, non e’ tanto per i soldi che vengono spesi nei prodotti, ma per le multinazionali che se li intascano impedendo che arrivino ai diretti interessati. Filiera più corta possibile? ok.
È sostenibile davvero? Dipende, facciamoci due conti
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/05/05/contro-la-spesa-a-chilometri-zero/
Se togliamo ai malesi la multinazionale, cosa rimane loro? Il commercio in loco, ma quale paese riuscirebbe davvero a perseguire l’autarchia alimentare?
Commercio equo-solidale? Benissimo. Ma noi possiamo permettercelo? Riuscirebbe a reggere il confronto con le grandi aziende?
Lo strapotere delle multinazionali è enorme e non c’è da scomodare la diffamazione del biologico come strategia per tenere incollato un consumatore alle proprie scelte alimentari. È già il sistema economico che non permette una grande via d’uscita.
È come l’abbassamento della temperatura nei i frigoriferi: se togli il calore da lì, da qualche altra parte aumenterà, perché bio e km 0 sono comunque NEL sistema.
La soluzione non è lineare né netta (biologico o km 0), sebbene siano due elementi che possano aiutare alla costruzione di una maggior consapevolezza, non solo alimentare. I GAS sono ad esempio un’altra iniziativa molto bella che rema in senso opposto alla mediazione delle multinazionali. Ma è abbastanza?
Poi mi chiedo come, seguendo questo sito che vedo sempre piuttosto attento a non trarre conclusioni su possibili panacee di tutti i mali e valutare spesso con la giusta produenza tutti i pro e i contro, anche questo articolo del 2012 è interessante e riporta proprio le mie stesse “balle”, che io invece legittime constatazioni ed assennati interrogativi.
http://www.ilfattoalimentare.it/biologico-pesticidi-marion-nestle.html
Postilla: la mia opinione sui consumi. Il sistema produttivo capitalista si basa sull’induzione di bisogni, anche non primari. Mangiare fino allo sfinimento, o mangiare trash food (che pure è estremamente gratificante dal punto di vista gustativo), rientra nei bisogni indotti dal sistema. Cercare di abbassare il consumo di beni che rientrino nel “bisogno indotto” è già qualcosa per sfuggire al meccanismo perverso “induzione del bisogno > consumo sempre maggiore > enorme guadagno aziendale > logica della multinazionale”.
Anche qui non una panacea, eppure un ottimo inizio: d’altronde per consumare meno non c’è altra soluzione del…consumare meno. Mi sembra un ragionamento in linea con ciò che ho affermato nei seguenti post, e tutt’altro che confuso.
In nuce, la matrice del problema è a livello di sistema economico. Finché non si porrà un limite alla sete di guadagno dell’impresa, il meccanismo verterà sempre al massimo profitto col minore sbattimento (sfruttamento umano, devastazione di foreste, pesticidi…).
Nonostante la tue risposte tanto esaustive quanto noiose, incostruttive, controproducenti e antropocentriche…non sarò molto lungo e prolisso come te cara la mia biologa “poveraccia” (l’hai detto tu…e mi chiedo quindi cosa hai studiato a fare se non riesci neanche a capire la convenienza in termini etici-economici del cibo biologico) ma mi soffermerò ed analizzerò solo una tua frase che più di tutto riassume la tua visione distorta della situazione attuale: “Se togliamo ai malesi la multinazionale, cosa rimane loro? Il commercio in loco, ma quale paese riuscirebbe davvero a perseguire l’autarchia alimentare?”.
Quindi secondo te è giusto che multinazionali usurpatrici di risorse naturali, animali ed umane continuino a commettere reati sanguinari peggio di quello che già stanno facendo?
L’olio di palma non è il “demonio” come erroneamente affermi tu. Ma un prodotto ricavato da speculazioni agricole a sua volta ottenuto da sfruttamento umanitario-animale. Risultato? Un potente additivo a basso costo spacciato come olio vegetale commestibile che arricchisce ed espande un industria alimentare costituita da prodotti secchi superflui poco nutrienti ed inutili. Tali sono i derivati da pasticceria dolce salata industriale. E l’assortimento si sarebbe ancor di più allungato se non ci fosse stata una pronta azione di giusta protesta. Il consumatore è ignorante, e non vuole essere informato. Ragiona con lo stomaco e la gola, non con la coscienza. Un esempio eclatante fu lo scandalo aspartame negli anni ’80/’90. Il dolcificante killer. Ma di casi simili la storia ne è piena…tutti figli di un consumismo capitalista sfrenato ed irresponsabile. Profitto ad ogni costo e con ogni mezzo. Chissenefrega se le persone, gli animali o la natura soffre e muore.
Ora ti chiedo: per quale corporation lavori? Il mio non vuole essere un attacco personale nei tuoi confronti, ma ti difendi così a spada tratta…che dubitare non è escluso da pregiudizi.
Cara la mia Luisella…facciamo parte dello stesso sistema, ma la differenza tra me e te e che io ci ho messo faccia e nome, in discussione. Tu? Cosa blateri di capitalismo sostenibile, quando l’unica cosa di sostenibile ora è il rifiuto a misure estreme di capitalizzazione industriale. Paragonare bio e filiera corta figli di questo meccanismo colpevole lui stesso del loro fallimento produttivo, ridicolizzati in un ghetto per appassionati…non solo è ridicolo, ma alquanto diffamante. Informarsi realmente su ciò che è coltivato e prodotto in loco non significa spendere 5 euro per due pere. E comunque io che i prezzo li conosco molto bene…la convenienza del tuo egiziano è fuori discussione. Qui si parla di grande distribuzione, non del fruttivendolo ambulante sotto casa. I numeri, veri, reali che contribuiscono a capire in che momdo viviamo non ce li fornisci tu con la tua spesetta dell’ultimo minuto. Non ti biasimo, per chi come te essere è inserita in un contesto lavorativo pieno zuppo di conflitti d’interessi non è facile condividere idee rivoluzionarie ed eticamente innovative. Chi ha detto che alle condizioni attuali il bio non è servirebbe a nulla?
I cambiamenti si attuano per tempi e modi ben definiti. Le politiche industriali passate hanno dato solo inquinamento, devastazione, miseria e povertà nel terzo mondo, oltre che un aumento dei consumi di prodotti derivati animali spaventoso, utile solo ad un consequenziale peggioramento dello stato di salute nostro presente e ad un futuro generazionale incerto e alquanto oscuro. I profitti miliardari sono andati in ben altri posti, non certo nella ridistribuzione solidale dei capitali. Non capire questo è irresponsabilmente disumano e delirante!
Cari saluti, Luisella.
Il tuo ultimo commento, Luisella, risponde da solo al tuo…primo.
Saluti.
E’ fantastico come si inneggia al km 0 come unica soluzione e non si capisce che se ci fosse solo il km 0/filiera corta chiuderebbero migliaia di aziende data la carenza di materie prime e la conseguente riduzione della produzione…Ovviamente l’impoverimento generale e le migliaia di persone che verrebbero mandate a casa non sono importanti vero? L’export di cui tanto a parole si va fieri non conta? Non esiste solo l’insalata al mondo eh…E tutte le persone che rimangono senza lavoro cosa fanno? coltivano il fazzoletto di terra del suolo italico per fare concorrenza (?) a distese immense disponibili in Ucraina, Canada, USA….
Filiera corta, km 0…chi sostiene questi metodi come panacea, spieghi come potremmo esportare la pasta, spieghi come dovremmo rinunciare al caffè (solo due esempi)…spieghi anche cosa significherebbe per l’intero sistema Paese rinunciare alle produzioni di pasta e caffè…
Siamo 60 milioni di persone in questo Paese: spiegate come, con filiera corta e km 0 si possono soddisfare le richieste di tutti. Spiegate a cosa dobbiamo rinunciare visto che per limiti evidenti del nostro territorio non possiamo coltivare o allevare tutto ciò che ci serve…
E non che rinunciare sia un male, anzi, saper rinunciare alle cose è una virtù, ma non spacciate il km 0 come un mezzo per ottenere in modo sostenibile tutto ciò di cui disponiamo ora…è falso e ingannevole.
Ha ragione Luisella, il km 0 e la filiera corta sono lodevoli, ma hanno senso solo se inseriti nel contesto globale…se rimanessero le uniche soluzioni, alla lunga, per paesi come il nostro, sarebbero un danno.
Alessandro dice:”Ha ragione Luisella, il km 0 e la filiera corta sono lodevoli, ma hanno senso solo se inseriti nel contesto globale”.
????
E’ l’esatto opposto!
Chiediti come sarebbe il nostro paesaggio con più campi coltivati in biologico che si traduce in sano, etico e responsabile ovvero più posti di lavoro nel locale o immediatamente vicino ai luoghi di residenza che si converte in meno industrie speculative ed inquinanti, meno lavoro sommerso e sfruttato, meno inquinamento delle terre-falde acquifere-aria che vuol dire meno potere capitalista alle multinazionali che da decenni stanno devastando interi territori, impoverimento masse popolari, distruggendo habitat naturali e schiavizzando lavoratori il cui potere d’acquisto si traduce in pochi spiccioli solo utili ad acquistare i loro stessi prodotti.
Il potere economico di sviluppo occidentale è in mano ai sistemi bancari che sono soggetti alle corporazioni e viceversa.
Gli Stati Uniti d’America con il loro trattato transatlantico (in studio e discussione con l’Europa) altro non faranno che creare un mercato unico mondiale non soggetto a dazi, leggi, normative e tribunali. Tutto sarà unicamente in mano a grossi brand che favoriranno solo e loro stessi distruggendo ogni possibilità di imprenditoria locale.
Pensi ancora che la filiera corta non possa creare posti di lavoro nel nostro belpaese?
Cari saluti.
Sig. Contestabile, anzitutto non ho mai scritto che la filiera corta non possa creare posti di lavoro. Ho scritto una cosa diversa, forse nella fretta ha equivocato. Lei continua a parlare di multinazionali dimenticando che l’Italia è un paese costituito per la gran parte da piccole e medie realtà. Lei considera i maggiori posti di lavoro per l’aumento dei campi coltivati in biologico omettendo la diminuzione dei posti di lavoro negli altri settori loro malgrado coinvolti.
Ripropongo quanto ha lasciato senza risposta nel mio precedente intervento. Immagino che lei, per coerenza con quanto va sostenendo non beva caffè, però il caffè rimane un’abitudine molto diffusa tra gli italiani e genera un giro d’affari non indifferente nel nostro Paese. Seguendo la logica della filiera corta e del km 0, questo settore in Italia sparirebbe, sbaglio? Traduzione: posti di lavoro persi.
L’altro esempio che facevo, la pasta: ammettiamo per assurdo che tutta la superficie coltivabile del Paese (a proposito, è in grado di dire indicativamente a quanto ammonta?) fosse destinata alla coltivazione del grano duro, pensa che la domanda interna di pasta sarebbe soddisfatta? E se anche lo fosse (considerando anche la minore resa di un ipotetica coltivazione 100% biologica), le aziende che lavorano anche all’estero, con la logica del km 0 e filiera corta non potrebbero più farlo, giusto? Anche questo settore quindi subirebbe un notevole ridimensionamento. Traduzione: posti di lavoro persi. In pratica nello scenario da lei proposto abbiamo appena rinunciato all’intero settore del caffè e ridimensionato l’intero settore della pasta saturando tra l’altro l’intera superficie coltivabile con il grano duro per soddisfare (forse) la domanda interna e abbiamo perso posti di lavoro (che immagino siano considerati di serie b da chi sostiene la filosofia del km 0) che, in parte potrebbero essere forse bilanciati dall’aumento dell’occupazione agricola nel biologico…Ma poi, per tutto il resto cosa facciamo? Dov’è fisicamente lo spazio per essere autonomi e autarchici e soddisfare l’intera domanda interna dell’agroalimentare?
Se cortesemente potesse rispondere a queste domande almeno potrei capire dove sta la falla del mio ragionamento.
Grazie
Caro Alessandro, hai menzionato solo due prodotti alimentari che per quanto siano beni primari non fanno testo in questo discorso produttivo. Ma ne voglio comunque tenere conto.
Inanzitutto bisogna fare una premessa che è dettata
dall’argomento principale dell’articolo in questione, non costringendoci pertanto ad uscire fuori tema. Qui si vuole approfondire una tematica molto importante ed essenziale nella produzione agroalimentare. Una produzione etica e sostenibile, per il benessere di tutti e di tutto ciò che ci circonda. L’olio di palma in ambito strettamente popolare non è sostenibile, non è sano, non è buono, non è essenziale. Lo è solo ed esclusivamente per un industria speculativa che preferisce rispiarmiare abbattendo foreste e cacciando oranghi dal loro habitat naturale, che si traduce in sfruttamento e morte. E perchè lo fa? Non certamente per creare nuovi posti di lavoro nel locale o nel globale, non certamente per favorire un abbattimento dei prezzi. Assolutamente no. Lo fa solo ed esclusivamente per aumentare i suoi margini di resa e guadagno. Niente di più e niente di meno. Un olio simil-vegetale che potrebbe essere tranquillamente sostituito con il più sano ed etico olio d’oliva o semi. Si è partito da questo caso perchè proprio questo è il caso emblema di corporazione capitalista non rispettosa dei diritti umani, animali e vegetali. Tutte le aziende medio, piccole o grandi hanno imitato a ruota questa produzione ignobile in barba ad ogni responsabilità. E lo farà ancora ed ancora fino a quando un governo giusto non vieterà tale azione sconsiderata. Ma questo è solo uno dei tanti esempi. Tu hai menzionato il grano. Lo sai che la pasta italiana è fatta per la maggior parte con grano estero? Migliore? Più buono? No. Più economico. E perchè proprio l’Italia che era uno dei maggiori produttori al mondo deve acquistarlo dal Canada? Semplice. Perchè il nostro costa di più. Ma non sarebbe meglio dare i nostri soldi ai nostri coltivatori piuttosto che a gente che neanche sappiamo dove abita? E poi, chi lo fa il prezzo? Gli agricoltori, i grossisti o la grande distribuzione? Probabilmente gli ultimi due. E al primo cosa resta? Gli spiccioli.
Di recente proprio un noto pastificio pugliese sta lanciando sul mercato una nuova linea di pasta di semola a filiera corta, 100% grano locale (così dicono). Non è una buona idea imprendotoriale? Riuscirà a competere con le altre marche a prezzi al pubblico inferiori perchè prodotti con grano estero? A chi giova tutto ciò? All’industriale? Probabilmente sì. Al consumatore? In parte sì e in parte no. Anche perchè tutti siamo consumatori, quindi ciò che viene speculato alla fine ci ritorna con seri danni, in termini di occupazione e benessere.
I prodotti agroalimentari sono tantissimi e proviamo ad immaginare solo per un attimo se potessimo tutti coltivarli nel nostro territorio. Un beneficio non indifferente in termini di fatturati, occupazione e profitto. Non c’è posto? Forse questo è l’ultimo dei nostri problemi. Basterebbe costruire qualche autostrada o palazzone in meno, la gente vivrebbe lo stesso…anzi! Inoltre considerando che le emissioni di co2 devono essere ridotte obbligatoriamente onde temere un disastro ambientale irreversibile, mi chiedo perchè non essere daccordo su biologico e coltivazione in loco.
Tu dici: “Lei continua a parlare di multinazionali dimenticando che l’Italia è un paese costituito per la gran parte da piccole e medie realtà. Lei considera i maggiori posti di lavoro per l’aumento dei campi coltivati in biologico omettendo la diminuzione dei posti di lavoro negli altri settori loro malgrado coinvolti.”
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Forse non sei aggiornato. L’imprenditoria italiana sta morendo, le piccole e medie imprese chiudono a centinaia ogni santo giorno…schiacciate da concorrenza spietata, costi di gestione spropositati e fisco infallibile. Qualche esempio? La manifatturiera italiana è scomparsa tutta delocalizzata all’estero dove ci sono costi di manodopera inesistenti ai limiti dello schiavismo, l’agroalimentare soffre di un mercato estero sempre più competitivo ed aggressivo che si traduce in prodotti ad alto costo, meno nutrienti qualitativamente parlando, e meno etici in termini di manodopera, l’industria (Fiat ed acciaio in testa) è stata svenduta agli americani, tedesci ed altri speculatori.
Per finire ora ti chiedo: il Made in Italy che fine ha fatto? Marchi prestigiosi ed importanti d’orgoglio nazionale dove sono andati a produrre, o meglio in mano a chi? Mi riferisco ad ogni settore produttivo. Ogni simbolo storico che nel novecento faceva crepare d’invidia il mondo intero, nonostante fossimo da sempre etichettati come mangia spaghetti e mafiosi. Ne eravamo fieri. Ora? E non mi venire a parlare di Ferrari o Ferrero. Perchè poco o nulla ormai è rimasto di vero ed autentico italiano. Neanche più Montezemolo ci hanno lasciato.
In ultimo non per importanza ti cito il caffè. Bene, nessuno ha mai detto che questo importantissimo bene debba essere coltivato in Italia, non sono un agronomo e non so neanche se sia possibile. Purtroppo il discorso in merito è molto ampio e non basterebbe forse una sola risposta per capirne il reale peso economico. Forse…unico al mondo per sfruttamento e speculazione. Bisogna solo citare questa breve storia per capirne la sua complessità:
Nel corso del 1700, francesi, inglesi e olandesi introdussero il caffè in varie parti dell’America centrale e del Sud, dando origine a quello che sarebbe diventato il centro mondiale della produzione di caffè. Infatti il clima e il terreno di quei luoghi, si rivelarono ancora più idonei alla coltivazione della pianta che la sua Terra d’origine (Medio Oriente ed Africa). Il cerchio della storia di caffè si chiude verso la fine dell’800 quando i colonizzatori inglesi introdussero le piante di caffè nell’Africa orientale britannica, mentre i francesi crearono piantagioni in Vietnam e in Australia.
Non sarebbe stato meglio lasciarlo dov’era?
Le popolazioni d’origine ne avrebbero sicuramente beneficiato in termini di sviluppo e benessere locale.
Cari saluti.
Sig. Contestabile, se lei pensa che basti qualche autostrada in meno e qualche campo biologico in più al nostro Paese per soddisfare l’intera domanda interna di agroalimentare con la sola filosofia del km 0 e della filiera corta, mi spiace ma siamo nel campo della fantasia. In questa logica del “villaggio autosufficiente” non viene mai spiegato quanto può essere grande il “villaggio”: è compatibile con la logica del km 0 che io, se vivo a Milano, acquisti arance di Sicilia ad esempio? Che la pasta si faccia con grano estero lo so bene (che il grano si sia sempre importato è altrettanto vero). Non entro nel merito di quale grano sia migliore nè del prezzo a cui viene venduto e non perchè non siano dati importanti, ma perchè non rispondono alla solita domanda: potremmo sostenere sul nostro territorio l’intero fabbisogno interno? La risposta è no, non per un problema di costi, ma per un problema di spazi. Sulla superficie agricola utile devono trovare posto gli ulivi, gli alberi da frutto, le risaie, i pascoli per gli allevamenti, etc…Nessun Paese può permettersi anche solo di pensare di essere autonomo. Peraltro se riportassimo questo suo ragionamento al singolo individuo, sarebbe come pretendere di essere cuochi, idraulici, elettricisti, avvocati, insegnanti di se stessi. Non è sostenibile. Gli scambi hanno da sempre favorito la crescita, l’autarchia e l’isolamento al contrario non favoriscono nessuno sviluppo. Si sta facendo confusione: un conto sono le speculazioni e gli sfruttamenti che le giustamente denuncia e che io condivido, un conto sono i normali scambi economici tra Paesi. Conosco l’esempio che cita della nuova linea di pasta a grano 100% locale. Questo è proprio l’esempio di come il km 0 non sia sostenibile su larga scala. Sia perchè se il progetto funziona, come mi auguro, prima o poi la materia prima 100% locale si esaurisce, limitando di fatto la produzione, sia perchè, la vendita, per essere coerenti non potrà valicare i confini del km 0. Che senso ha incentrare tutta una produzione sul km 0 e locale per poi vendere ovunque? Ha senso sì, ma non dal punto di vista della sostenibilità, ma da quello prettamente economico.
Poi fa bene a non fermarsi all’agroalimentare nella sua dissertazione e mi chiedo appunto: perchè la filosofia del km 0 e filiera corta non deve valere per tutto quanto? Per coerenza dovrebbe essere così non trova? Come pensa che il nostro Paese possa rendersi autonomo a livello energetico ad esempio? Come pensa possa rendersi autonomo per le materie prime che per sua natura questo Paese non possiede? Allora ok: che il caffè stia nella sua terra di origine, ma allora per coerenza, anche il gas naturale con cui ci scaldiamo durante l’inverno dovrebbe restare al suo posto.
So benissimo che la piccola e media industria italiana sta morendo, ma non è certo togliendole le possibilità di sviluppo che si favorisce l’inversione di tendenza…
Aggiungo brevemente: se dobbiamo fare il ragionamento “il caffè: non sarebbe stato meglio lasciarlo dov’era?”, allora dobbiamo applicare lo stesso ragionamento al kiwi ad esempio di cui siamo il primo produttore mondiale…al pomodoro, a quant’altro?
Caro Alessandro, mi dispiace contraddirti ancora una volta ma credevo di essere stato abbastanza chiaro o almeno credevo che conoscessi la situazione reale. Chiedo scusa mi sbagliavo, provvedo subito.
Non si può paragonare in termini economici capitalisti un bene primario come il caffè con il kiwi o il pomodoro (con tutto rispetto per entrambi). In breve ti spiego cosa è oggi la produzione globale del famoso chicco: il caffè è una delle principali commodity, ovvero una materia prima il cui prezzo è regolato dal mercato. Nonostante sia interamente prodotto nel Sud del mondo (schiavizzato), la sua compravendita avviene nelle borse dei Paesi occidentali (New York per l’arabica e Londra per il robusta), dominate dagli attori della finanza e dai grossi importatori, che impongono condizioni sfavorevoli per i piccoli produttori, del tutto esclusi dalla distribuzione del profitto maturato sul loro lavoro. L’oro verde è quindi il prodotto coloniale per eccellenza, simbolo del colonialismo prima e del neo-colonialismo poi e, quindi, anche del commercio equo e solidale, che è nato per combattere le diseguaglianze sorte a causa di questi fenomeni. Quindi si capisce molto facilmente quale giro d’affari esiste dietro una banale tazzina, ma in particolare di quale portata…ben oltre le 400.000 tonnellate annue dei kiwi italiano o del frutto rosso per eccellenza. La nostra amata tazzina venduta a caro prezzo nei bar, è importante ben oltre il suo singolo euro.
Ma non voglio scendere in merito e rispondere molto brevemente alle tue arringhe. Tu dici: “Non entro nel merito di quale grano sia migliore nè del prezzo a cui viene venduto e non perchè non siano dati importanti…”. ????
Non importanti?? Forse non ti rendi conto di quanto denaro e risorse sono in ballo (miliardi e miliardi di euro) e di quanto ciò favorirebbe non solo la nostra economia nazionale ma pure tutto l’indotto conseguente.
Tu dici: “Gli scambi hanno da sempre favorito la crescita…” ????
E’ l’esatto contrario. Quale crescita? Dell’industriale o della casalinga, del lavoratore o degli speculatori finanziari che giocano appunto in borsa (come per il caffè) stabilendo prezzi e tariffe.
Se ogni paese sovrano, e per sovrano intendo ogni nazione completamente responsabile e autonoma di poter prendere decisioni in merito al proprio benessere etico sano e civile, potesse facilmente prodursi da solo ogni singolo fabbisogno…avremmo fatto bingo. Non è pura follia ma un sogno realizzabile, forse utopistico ma assolutamente fattibile. Basti pensare che con la moneta unica non siamo neanche in grado di stampare 1 euro per inflazionare la crescita economica. Quindi rendiamoci conto in quale situazione stiamo andano a ficcarci. Altri lo avevano capito e ne sono rimasti fuori. Noi purtroppo no.
Prima ho menzionato il trattato transatlantico sulla liberalizzazione delle merci alimentari tra America ed Europa. Forse è passato inosservato e non a caso può essere il fulcro del discorso. Se veramente si realizzasse (cosa molto probabile visto e considerato l’interesse economico succoso dei grossi brand!) significherebbe libero scambio senza dazi e controlli sulla filiera, che si traduce in una non tracciabilità, gravissima, soprattutto in merito alle carni e a tutti i prodotti derivati animali. Gli Stati Uniti hanno dei protocolli di controllo molto più blandi rispetto ai nostri per fortuna severi, specialmente in Italia dove esistono marchi rinomati come il Parmigiano. Così facendo potremmo trovarci in un caos assortimentale folle e delirante, in cui sugli scaffali potrebbero comparire tutta una serie di prodotti non certificati a dovere, di dubbia provenienza, ed assolutamente anonimi in merito ad ingredienti e contenuti nutrizionali. Cito il famoso formaggio Parmesan spacciato per Parmigiano e venduto in tutto il mondo. Questo intendo per specifica filiera corta. Certificazione e produzione controllata, che si traduce in beneficio per il produttore e sicurezza per il consumatore, oltre che profitto e ritorno economico nel territorio locale o nazionale. Chiediamo al consorzio della famosa forma se sono daccordi al trattato americano-europeo. Non dimentichiamo che in America ci sono i temibili OGM non segnalati in etichetta di cui noi non facciamo uso (a quanto pare). In America imbottiscono pesantemente gli animali d’allevamento con antibiotici ed ormoni non segnalati in etichetta. Ecc. ecc. ecc…potrei continuare a ruota libera. Abbiamo ancora voglia di parlare di filiera corta controllata?
Per quanto riguarda gli altri aspetti da te citati in merito alle materie prime energetiche…sono fuori luogo e fuori discussione e non entrano nel dibattito specifico anche perchè mi sembra ovvio (e per fortuna non solo a me) che gas e petrolio non siano sostenibili ovunque essi si trovino, ovunque sia il loro paese d’estrazione e produzione. Sono risorse esauribili soggette appunto a speculazioni eco-umanitarie profonde.
Qui si parla di cibo…non di conflitti e bombe.
Per ultimo ti ripeto che la piccola media impresa italiana (e non solo) sta morendo proprio grazie al mercato globale. Vince il più lobbista, non il più onesto. Il capitalismo è proprio questo. Profitto ad ogni costo e con ogni mezzo. Alla faccia del piccolo imprenditore che cerca di sbarcare il lunario.
Chiudo qui anche perchè mi sembra ovvio che abbiamo divergenze radicali e non mi sembra il caso di proseguire oltre. Non è rispettoso per la testata e per chi ci legge.
Ti saluto, augurandoti buon lavoro corporativo.
Sig. Contestabile, non è rispettoso per chi legge nemmeno sostenere una tesi senza spiegare in che modo questa tesi può essere messa in pratica.
Guardi, la faccio breve: sono entrato nella discussione perchè non condivido la tesi che km 0 e filiera corta possano sussistere come unica filosofia di produzione e consumo. Ho provato a spiegare perché ma forse ho peccato in chiarezza.
Non la condivido perché:
a) il nostro Paese (ma nessun Paese) è in grado di autosoddisfare la propria domanda interna agroalimentare e già questo rende inapplicabile tale filosofia in quei termini. E non è in grado non per le speculazioni e gli sfruttamenti, ma per sua natura, geografica in primis. Lei pensa che invece sia possibile? Legittimo. E’ troppo se le chiedo però di spiegare come? Non si tratta di evitare di costruire qualche autostrada su, siamo realisti!
b) se deve essere l’unica filosofia di produzione e consumo e quindi di conseguenza applicata su scala mondiale è una contraddizione in termini: come si può pretendere di produrre con il criterio della filiera corta ma allo stesso tempo pretendere che altri Paesi acquistino i nostri prodotti…non applicando di conseguenza il concetto di filiera corta da lei sostenuto?
Spero che possa rispondere a queste due osservazioni in modo che io (e non solo io) riesca a capire e magari, perché no, condividere il suo punto di vista. Se sono qui a “perdere tempo” e scrivere su questo portale infatti è perché ho la voglia di conoscere e capire un punto di vista diverso dal mio, in virtù del fatto che, come ho già avuto modo di scrivere, gli scambi favoriscono la crescita, culturale prima di tutto…
Se non vorrà rispondere pazienza, sarà un’occasione di confronto persa.
Un ultima precisazione: quando io scrivo, relativamente al prezzo del grano “e non perchè non siano dati importanti” le due negazioni vanno a costituire un’affermazione, deve esserle sfuggito.
Caro Alessandro, per chi vive in una porzione di Italia come è il nord devastata da unbanizzazione selvaggia incontrollata e criminale senza rispetto di nulla, (ecosistema, sostenibilità, riqualificazione energetica ecc.ecc.) può essere complicato parlare e condividere di filiera corta realizzabile. Altri, purtroppo per noi e meglio per loro, hanno già fatto molto di più e molto meglio (si veda il nord Europa). Solo oggi si cerca di correre invano ai ripari. Le recenti alluvioni devastanti, ma evidenti ovunque anche anni addietro, evidenziano un problema veramente serio ed altrettanto urgente da risolvere. Io vivo al sud e, senza menzionare in quale regione, qui ci sono migliaia e migliaia di ettari incolti, abbandonati o peggio inquinati da criminalità incosciente complice di un industria irresponsabile che ha cercato per decenni di distruggere in maniera speculativa un territorio puro e bellissimo. Lasciare queste immense terre allo stremo delle forze e alla mercè di gruppi sprovveduti incoscienti non solo è negativo e controproducente, ma è altrettanto immaturo per non capire che le risorse nazionali sono un bene da legittimare e proteggere non da distruggere. Investire sprovvedutamente nel mercato estero sputando nel proprio piatto è da stupidi. Cosa stiamo lasciando ai nostri nipoti? Tu affermi che non ci sia spazio sufficiente, ne sei sicuro? E se fosse vero perchè non capitalizzare eticamente e coscientemente una porzione di terra che altro non può dare che frutti buoni e sani? Ed evitare quindi di acquistare all’estero beni più costosi, meno nutrienti, meno etici e solidali e di dubbia origine e provenienza? Ora non spetta certamente al sottoscritto trovare la soluzione più idonea. Non sono un politico nè un imprenditore. Indubbiamente le idee e le possibilità di crescita nazionale esistono e sono reali e concrete.
Sicuramente la strada più semplice e libera è quella che proponi tu: globalizzazione e speculazione. Due armi a doppio taglio molto pericolose che producono solo fatturati immensi senza nessuna ricapitalizzazione solidale per le popolazioni, impoveriscono intere economie locali ed arricchiscono poche multinazionali di potere.
Per concludere veramente…mi chiedo ora, ancora una volta, che cosa ci sia di tanto errato nel pensare in piccolo?
Aggiungo questo mio ultimo appunto solo con una nota da citazione, in modo tale da convergere varie opinioni non direttamente da uno o due interlocutori ma da un soggetto esterno. Se la redazione lo autorizzerà potrebbe essere un buon spunto di lettura e condivisione.
La fonte è il portale GreenMe.it e l’articolo in questione si intitola “10 prodotti ecologici saccheggiati da multinazionali e biopirateria”:
“Domenica 12 ottobre è entrato in vigore il Protocollo di Nagoya, ratificato da 51 Paesi per fermare la biopirateria. Ma molti piccoli produttori agricoli lottano già da anni per difendere la biodiversità e l’autenticità degli alimenti coltivati secondo la tradizione. Ecco perché scegliere le filiere corte, locali, sostenibili e del commercio equo acquista un’importanza vitale per difendere la biodiveristà e il lavoro degli agricoltori onesti.
– Pesticidi nel tè Lipton venduto in Cina. Il marchio appartiene alla multinazionale Unilever. Greenpeace aveva rivelato la scomoda verità qualche tempo fa. In alcuni campioni era stata individuata la presenza di pesticidi banditi dall’Unione Europea. Una delle sostanze ritrovate, chiamata Bifenthrin, secondo gli esperti potrebbe interferire nella produzione degli ormoni maschili. Greenpeace ha richiesto a Lipton l’immediata riduzione delle sostanze dannose impiegate nella produzione di tè e l’introduzione di maggiori controlli sulla qualità.
– Il termine Kamut® non indica un cereale ma un marchio registrato che l’omonima società ha imposto al grano khorasan coltivato in Canada. In questo modo ne ha, in buona sostanza, l’esclusiva. Ognuno è libero di scegliere se acquistare questo cereale, che probabilmente non risale all’antico Egitto come vorrebbero farci credere. Ma è bene sapere che alcuni grani antichi vengono coltivati anche in Italia. Una varietà di grano khorasan non registrata dal marchio Kamut si trova ad esempio in regioni come Abruzzo, Basilicata e Campania, dove troviamo il grano Saragolla. Altra varietà di grano antico italiano è il Senatore Cappelli. Riscopriamo anche il farro, la segale e l’orzo di coltivazione nostrana. Cerchiamo sempre di dare la preferenza a piccole realtà locali e dell’agricoltura biologica.
– La coltivazione della quinoa sta diventando insostenibile? Dal 2006 ad oggi il prezzo della quinoa è triplicato. I consumatori sono disposti a pagare di più per un alimento benefico ed “esotico”, ma quanto guadagnano realmente i contadini che si occupano della sua coltivazione? Stiamo forse sfruttando il lavoro degli agricoltori locali e i loro terreni? La soluzione è scegliere quinoa bio e solidale, che non venga coltivata sfruttando l’ambiente e i lavoratori.
– I prodotti biologici sono purtroppo sempre più al centro di truffe e frodi. Lo scorso settembre i NAC hanno sequestrato 250 litri di olio extravergine d’oliva falso. Veniva etichettato come biologico ma non era nemmeno adatto all’alimentazione. Si trattava di olio lampante, cioè di un olio di qualità molto scarsa, che in passato sarebbe stato utilizzato per le lampade ad olio, non di certo in cucina. L’individuazione delle frodi nel biologico è comunque il segno che gli organismi di controllo e gli enti di certificazioni sono sempre operativi per difendere le aziende e i consumatori e per contrastare la criminalità.
– Le multinazionali non hanno perso tempo nell’allungare i propri tentacoli verso un dolcificante naturale come la stevia. L’esempio più evidente è la bibita Coca Cola Life o i dolcificanti a base di stevia di Dietor e Misura. Il suo contenuto di stevia non basta di certo a renderla green e naturale. Possiamo coltivare la nostra piantina di stevia sul balcone, così come possiamo acquistare il dolcificante naturale presso piccoli produttori italiani. In Argentina, ad esempio, proprio per contrastare le multinazionali è nato un progetto per coltivare la stevia in modo sostenibile.
– Il problema dei pesticidi proibiti ha raggiunto anche il vino francese, sia convenzionale che biologico. Di recente gli esperti hanno identificato pesticidi multipli, comprese sostanze proibite. I vini da agricoltura biologica avrebbero dovuto esserne del tutto privi, dato che l’impiego di pesticidi nei vigneti bio è vietato. E’ possibile che una contaminazione delle uve da vino si verifichi per via della vicinanza tra vigneti coltivati secondo l’agricoltura biologica e vigneti convenzionali? L’importante è che i controlli siano sempre regolari per tutelare i consumatori e di certo il biologico è molto più monitorato rispetto alla produzione convenzionale.
– Conosciamo il rooibos soprattutto come infuso, ma i suoi impieghi raggiungono anche la cura della pelle e dei capelli. Un’inchiesta condotta dalla Dichiarazione di Berna e da Natural Justice ha rivelato che cinque domande di brevetto sul Rooibos depositate da Nestlé nel 2010 per quanto riguarda l’impiego del rooibos in prodotti cosmetici e nutraceutiici contravvenivano alla legislazione sudafricana e alla Convenzione sulla Biodiversità.
– La bipirateria ha colpito anche il riso basmati. Già nel 2000 Action Aid aveva lanciato una campagna per arginare il fenomeno. RiceTec ha depositato un brevetto per una particolare tipologia di riso basmati ottenuta dalla combinazione con una varietà di riso americana. Era il 1997 e RiceTec si difendeva dalle accuse sostendendo che questo brevetto su una sola varietà non avrebbe leso la grane produzione di riso basmati. Una difesa debole. Grazie al boicottaggio e alle proteste dei contadini, infatti, in seguito il brevetto sarebbe stato revocato.
– Monsanto avrebbe cercato di creare nuove sementi a partire da una varietà di melanzane coltivata in India da generazioni e ottenuta dopo numerosi incroci curati dagli agricoltori localo nel corso del tempo per ottenere alimenti migliori e ortaggi più resistenti. In India la multinazionale americana è stata accusata di bipirateria, un caso più unico che raro per Monsanto, che pare abbia portato alla vittoria degli oppositori indiani agli Ogm.
– A giungo del 2013 nel nostro Paese è scattato un maxi sequestro che ha avuto come oggetto la soia contaminata da pesticidi altamente tossici. Non solo non avrebbe potuto essere venduta come soia bio, ma nemmeno come prodotto alimentare convenzionale. E’ importante ricordare che la necessità di incrementare la coltivazione di soia – che potrebbe portare anche all’impiego di sostanze tossiche o illegali – è strettamente legata alla produzione di mangimi destinati agli animali da allevamento. Scegliamo sempre soia e prodotti a base di soia italiani e garantiti senza Ogm, con materie prime provenienti da filiera corta italiana.
Si tratta di prodotti tipici ed ecologici “sfruttati” o contraffatti dalle grandi aziende, in alcuni casi al punto da renderli completamente insostenibili.”
Il link originale è il seguente http://www.greenme.it/mangiare/altri-alimenti/14633-prodotti-ecologici-multinazionali-biopirateria
Cari saluti.