Vino libero è un’associazione privata di cantine promossa dal patron di Eataly, Oscar Farinetti, che attraverso una vasta campagna pubblicitaria sui media è già diventata un soggetto importate per il settore. Vino libero punta a un nuovo modello di produzione e di business, che vuole liberaarsi dalla chimica, dal packaging eccessivo, dalle mode culturali, dalla troppa burocrazia e dalla tirannia delle catene distributive. L’altro elemento caratterizzante di Vino libero è la messa a punto di un’insolita rete costituita da produttori, fornitori (enoteche e ristoranti) e consumatori.
Siamo di fronte a una rivoluzione, come dicono i sostenitori, o solo un’abile operazione di marketing, come replicano i detrattori? Vediamo meglio come funziona.
Al cuore del sistema ci sono naturalmente i produttori. «Al momento sono 12 cantine, ma sono già arrivate un centinaio di proposte di adesione. L’idea è raggiungere almeno i 30 soci, rappresentativi delle varie regioni italiane» afferma Roberto Bruno, direttore commerciale di Fontanafredda, azienda di Eataly capofila del progetto. Come si legge nel disciplinare Vino libero, i soci «si impegnano a portare avanti un modello di agricoltura sostenibile che sia economicamente vantaggiosa, rispettosa dell’ambiente e socialmente giusta».
Si può essere biologici, ma non solo. Anzi, “biologico” è una di quelle etichette che a Farinetti non piacciono poi tanto: «è un concetto troppo farmaceutico» dice. Lui preferisce qualche battuta più efficace e di facile comprensione e lo slogan diventa “vino libero dai concimi chimici, dagli erbicidi e dai troppi solfiti”.
Per il resto si punta all’agricoltura integrata, una via di mezzo tra le rigidità delle produzioni biologiche e la totale libertà di quelle convenzionali.
I vini liberi non si trovano ovunque, ma solo in enoteche e ristoranti selezionati: «L’obiettivo è arrivare a un migliaio» precisa Bruno «in modo che sia coperto tutto il territorio italiano, senza eccessive sovrapposizioni che possano causare problemi di concorrenza». In alternativa, si possono acquistare online, a un prezzo compreso tra 5 e 35 euro (per le bottiglie da litro).
L’acquisto però non è diretto: la merce viene indirizzata all’enoteca più vicina all’acquirente, che può decidere se andare a ritirarla di persona o farsela consegnare a casa.
Si punta sul web come strumento per promuovere una relazione di fiducia non solo tra clienti e produttori, ma anche tra clienti e fornitori: «Figure importanti di specialisti del vino, che in questi tempi di crisi rischiano di venire tagliati fuori dalla filiera» afferma Bruno.
Dai nodi di questa rete – una community in parte virtuale e in parte reale di viticoltori, fornitori e consumatori – dovrebbe passare la liberazione del vino dai vincoli troppo stretti posti dalla grande distribuzione. «La GDO altera i rapporti di equilibrio con i produttori, perché solo i grandi riescono a spuntare accordi decenti, mentre i piccoli soccombono» spiega Attilio Scienza, presidente del corso di laurea in viticoltura ed enologia, egli stesso viticoltore (non appartenente alla rete Vino libero) e grande esperto di storia e cultura del vino.
«Ben vengano allora iniziative come questa, che puntano sull’associazione per cercare nuove forme di distribuzione, cercando allo stesso tempo di garantire una giusta remunerazione ai piccoli viticoltori. Perché una cosa è sicura: l’anello debole della catena è proprio lì».
E sempre per la community dovrebbe passare anche una battaglia culturale di liberazione dai luoghi comuni o dalle costrizioni imposte dalla moda: nessun ristoratore che abbia in carta del Vino libero vi guarderà mai male se ordinate un bel rosso insieme a un piatto di pesce. «Molti modelli di consumo hanno puntato su grandi vini particolari – e costosi – da bere solo in occasioni speciali» commenta Scienza.
«Ora si tratta di recuperare il gusto per un buon vino quotidiano, un prodotto “comune”, come il pane o la pasta, da gustare senza farsi troppi problemi».
Fin qui tutto bene: una bella battaglia di difesa economica e ambientale, con in più un pizzico di rivendicazioni culturali. E però, inutile negarlo, si avverte anche distintamente profumo di marketing. Proprio a partire da quello slogan antichimica, che è senza dubbio potente, ma non fa alcun riferimento ai pesticidi (insetticidi e fungicidi), il cui uso è attualmente la via principale per l’ingresso della chimica in vigna.
«Concimi chimici e diserbanti, per varie ragioni, si usano poco e comunque sempre meno» precisa Paolo Carnemolla, presidente di Federbio (Federazione italiana agricoltura biologica e biodinamica), mentre giova ricordare che ben la metà di tutti gli antiparassitari utilizzati in agricoltura trova impiego nelle viti. Ed è proprio da lì che viene il rischio di contaminazione del vino con residui chimici.
Pronta la replica di Roberto Bruno: «Il nostro disciplinare per l’agricoltura integrata prevede solo l’utilizzo di prodotti con un tempo di carenza molto breve, così da essere sicuri che non possano restare residui sugli acini quando arrivano in cantina».
Resta il fatto che di fronte a uno slogan così, qualcuno potrebbe pensare di trovarsi davvero davanti a un vino prodotto senza chimica, mentre le cose sono un pochino più variegate. «Stesso discorso per la questione dei solfiti» rincara Carnemolla. «A parte il fatto che anche molti viticoltori convenzionali riescono ormai a ridurre o azzerare l’aggiunta di anidride solforosa, comunque questa è soltanto una delle centinaia di sostanze che si usano in cantina per la vinificazione. Che succede per le altre?».
La critica, insomma, è che sul fronte produttivo si stiano sbandierando qualità che non sono poi così particolari o innovative: anche per banali ragioni economiche (concimi, diserbanti e pesticidi costano), l’agricoltura integrata è un modello sempre più diffuso.
Anche se qui, va detto, il discorso è più ampio e arriva a investire anche il packaging: «Puntiamo su contenitori ecocompatibili» dice Bruno. «Vetro, carte e cartoni sono riciclati e per le stampe si usano solo inchiostri naturali».
In ogni caso, resta probabilmente più convincente la ricerca di un nuovo modello di business – dunque per sua natura destinato a far contenti alcuni e scontentare altri – o la battaglia contro il grande mostro della burocrazia. Il problema è reale: in viticoltura c’è una regola per tutto e molti aspetti della produzione devono essere annotati su appositi registri. «Davvero, ormai è diventata una gabbia troppo stretta, specie per i più piccoli» afferma Attilio Scienza, che vede nel modello scelto da Vino libero – l’autocertificazione, che deve necessariamente combinarsi a un forte senso di responsabilità morale – una possibile via d’uscita.
Anche qui, però, non tutti sono d’accordo: «Certo il produttore deve fare il produttore, non l’impiegato amministrativo. Ma questo non può tradursi in un rifiuto della certificazione e delle regole» dichiara Carnemolla. «Piuttosto, bisogna lavorare per ridurre il carico della burocrazia, per esempio puntando sull’informatizzazione».
Per il momento, il giudizio sull’operazione Vinolibero è sospeso: che sia una grande mossa di marketing è indubbio, ma potrebbe essere anche un’occasione per dare una scossa a un settore in crisi. Restiamo a vedere.
Valentina Murelli
Foto:Vinolibero.it, Photos.com
Giornalista scientifica
Il Rapporto sull analisi ufficiali sui residui di fitofarmaci per il 2011, redatto dal Ministero della Salute, riporta che 51,6% dei campioni analizzati è risultato privo di residui rilevabili mentre
il 48,4 % ha presentato residui inferiori ai limiti. Non sono risultati campioni non conformi.
E’ chiaramente una trovata pubblicitaria e basta. Purtroppo produrrà solo confusione nei consumatori.
Mi verrebbere da sorridere, se non ci fosse da preoccuparsi per la salute delle persone, sull’attenzione a solfiti o fitofarmaci in un prodotto che è una soluzione di alcol in acqua. L’alcol è uno dei più potenti cancerogeni che si conoscano, inserito dallo IARC nel gruppo 1 (cancerogeni sicuramente cancerogeni per l’uomo) (http://monographs.iarc.fr/ENG/Monographs/vol44/volume44.pdf). E la concentrazione di etanolo nel vino è dell’ordine del centinaio di grammi per litro, vale a dire decine e decine di volte superiore alla concentrazione di eventuali residui di fitofarmaci. Pensare che del vino facciano male i solfiti e i fitofamaci, appunto, induce un sorriso:
è un po’, con i dovuti distinguo, come fumare una Marlboro fatta con un tabacco libero dai concimi chimici, dagli erbicidi e dai troppi solfiti…farà bene?
MINE LIBERE!
"Mine libere" è un consorzio di produttori di mine antiuomo colorate con vernici naturali, biologiche, non tossiche per l’organismo umano.
Se è vero che il problema per la salute umana del vino sono i concimi chimici, gli erbicidi e i solfiti, per analogia possiamo sostenere che il pericolo delle mine antiuomo sono le vernici tossiche con cui sono rivestite…
Preso atto dei dati del Ministero della Salute, prontamente richiamati dal caro Luigi, viene solo da chiedersi se non ci si trovi di fronte a un caso esemplare di PUBBLICITÃ