Si chiama PHL7, assicura prestazioni mai viste e proviene da un cimitero o, per meglio dire, da una profondità di 50-70 cm sotto la superficie di un mucchio di compost, all’interno di uno dei cimiteri della città di Lipsia, in Germania. A trovarlo sono stati i ricercatori della locale università, che hanno prelevato anche campioni nel giardino dell’ateneo e nel terreno dell’Orto Botanico (sei per sito), nell’ambito di due programmi europei chiamati MIPLACE e ENZYCICLE, finalizzati a mettere a punto tecnologie più sostenibili per il trattamento della plastica.
Una volta tornati in laboratorio, i chimici tedeschi hanno condotto numerosi esperimenti sui campioni prelevati e hanno così scoperto che PHL7 assicura prestazioni che nessun altro enzima analogo riusciva a dare. Il PHL7 appartiene infatti alla famiglia delle cosiddette idrolasi che ‘tagliano’ il poliestere, il cui progenitore, chiamato LCC, che nelle piante serve a degradare le cuticole, è stato descritto da un gruppo giapponese nel 2012. Da allora ne sono state descritte altre, ma nessuna come PHL7.
Come hanno poi raccontato su ChemSusSchem, per verificarne le capacità, gli autori hanno messo a confronto PHL7 proprio con LCC, e hanno così dimostrato che, a parità di tempo, il primo ‘smonta’ il Pet nella metà del tempo: per esempio, in meno di 24 ore decompone una vaschetta per ortofrutta. In 16 ore riesce a degradarne il 90%, contro il 45% dell’LCC.
La degradazione enzimatica del Pet presenta diversi vantaggi rispetto a quella termica oggi più utilizzata. Innanzitutto richiede poca energia: sono necessari, di solito, non più di 65-70°C, contro le centinaia di gradi necessari nei processi basati sulla fusione delle plastiche. Poi ha come esito finale l’acido tereftalico e il glicole etilenico, composti del tutto riciclabili per produrre nuova plastica, cioè rende il ciclo del tutto circolare. La degradazione termica, invece, produce miscele meno pure e meno performanti, la cui qualità si abbassa a ogni ciclo di degradazione, fino a che restano solo scarti inutilizzabili e non sempre facili da smaltire. Finora, tuttavia, questa modalità non si è mai diffusa molto (in Europa c’è solo un impianto pilota, in Francia), anche a causa delle prestazioni ancora non ottimali degli enzimi e del loro costo. Ora però l’enzima del cimitero potrebbe cambiare molte cose, perché si è scoperto a che cosa deve la sua potenza: nella sua struttura, simile a quella delle altre idrolasi, è presente un amminoacido diverso rispetto agli altri membri della famiglia (una leucina al posto di una fenilalanina), e averlo capito potrebbe permettere di ideare nuovi enzimi simili, ma di sintesi.
Restano alcune importanti questioni da risolvere, sulle quali il team sta lavorando: per esempio, PHL7 riesce a degradare solo il Pet amorfo, utilizzato appunto per le vaschette, e non ancora quello cristallino, impiegato nelle bottiglie. L’idea è quella di ideare un pretrattamento che renda qualunque tipo di Pet adatto al passaggio enzimatico. Inoltre si sta cercando un partner industriale per dare il via a una produzione su larga scala dell’enzima che, a sua volta, permetta di averne grandi quantità a costi contenuti e, in questo modo, possa rendere conveniente la realizzazione di un vero e proprio impianto.
© Riproduzione riservata Foto: AdobeStock, Fotolia, Christian Sonnendecker (Università di Lipsia)
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Giornalista scientifica