Gli scandali che hanno investito lo sport agonistico prevalentemente femminile negli ultimi mesi non sono un fenomeno solo italiano, anzi. Atlete come la tennista Serena Williams e la ginnasta Simone Biles hanno denunciato da tempo le pressioni ricevute per rispettare standard di peso e di prestazioni impossibili, che le hanno condotte alla depressione, o peggio. Tuttavia queste pressioni non arrivano solo da allenatori e club, ma anche dalla rete e, nello specifico, dai social media, dove eserciti di sedicenti influencer propongono allenamenti e diete impossibili, e dove gli hater amplificano qualunque imperfezione, alimentando un circuito infernale nel quale le ragazze si sentono obbligate a sottoporsi a vere e proprie vessazioni e a pratiche malsane, pur di accontentare tutti.
Di questo mondo parla ora un libro uscito negli Stati Uniti, scritto da Kathryn Vidlock, medica sportiva, Catherine Liggett, ex atleta, e dal dietologo Andrew Dole, intitolato Spring Forward: Balanced Eating, Exercise, and Body Image in Sport for Female Athletes. Il libro parte dalla storia di 12 ragazze che hanno praticato vari sport, dal nuoto al tennis, dalla pallavolo al basket, e analizza i miti alimentari pubblicati online, per esempio su Instagram o TikTok, da fitness influencer insieme a immagini per la ‘fitspiration’ relative agli esercizi cui sottoporsi o, ancora, ai ritocchi con Photoshop fino a ottenere immagini assurde da proporre alle atlete in erba, che così cercano di raggiungere standard del tutto irrealistici.
Come spiegano gli autori, la stragrande maggioranza degli influencer sportivi non ha alcuna preparazione specifica in nutrizione e dà consigli che, se seguiti alla lettera, possono portare a gravi stati di malnutrizione, a disturbi del comportamento alimentare e perfino alla morte, come racconta una delle 12 atlete, che ha visto morire in campo la propria compagna di squadra di pallavolo, collassata in conseguenza dell’anoressia sviluppata. Inoltre, numerose testimonianze riportano casi di punizioni vicine alla tortura come la privazione di qualunque alimento per più di 24 ore, correre per alcuni chilometri solo per aver mangiato un dolce o, ancora, il costante ricorso agli insulti per mantenere le ragazze entro limiti di peso proibitivi.
Lo sforzo degli autori, però, è stato anche quello di proporre uno strumento per combattere gli abusi specificamente in ambito nutrizionale, che hanno chiamato SPRING (da Strength and Positivity Rooted in Nutrition for Girls). Si tratta di un programma educativo da implementare nelle scuole e al quale far partecipare non solo le atlete, ma soprattutto gli insegnanti, gli allenatori e i responsabili delle società sportive, affinché capiscano quali sono i rischi cui espongono le giovani sportive e soprattutto l’importanza di essere flessibili, per quanto riguarda i parametri e le prestazioni di un corpo in cambiamento come quello delle adolescenti. Adottato in alcune scuole superiori del Colorado, avrebbe fatto aumentare del 22% proprio la flessibilità nell’accettazione dell’immagine corporea.
E di social media e alimentazione si occupa anche un altro studio, questa volta dedicato all’apparenza, cioè al fatto che certi alimenti poco sani piacciono di più indipendentemente da come sono rappresentati, a differenza di quanto avviene con gli alimenti più sani, soprattutto se presentati senza interventi. I ricercatori dell’Università della Georgia hanno analizzato, tramite un apposito software, poco meno di 54mila immagini postate su Instagram nell’arco di due anni da account legati a cibo e alimentazione di food influencer, cuochi e nutrizionisti, e hanno così scoperto che ogni volta che la foto o il video ritrae alimenti ricchi di calorie i like siano sempre numerosi, mentre quando l’alimento è poco calorico, i like dipendano dalla composizione dell’immagine: nel caso di post di cibi sani contraddistinti da tinte calde come il giallo e il rosso su sfondo bianco o chiaro i like sono più numerosi, mentre quando l’immagine ha un colore freddo come il verde o il blu i like stentano ad arrivare.
Questo non deve stupire, anzi, è spiegabile con meccanismi antichissimi, eredità dell’evoluzione e di epoche nelle quali trovare cibo era difficile: il cervello si è adattato a preferire alimenti che massimizzavano l’apporto di calorie. Tuttavia, come spiegano gli autori su Health Communication, la parte relativa ai colori, non del tutto chiarita per quanto riguarda le motivazioni, può essere anche sfruttata, per migliorare il gradimento del cibo più sano. Per esempio, aggiungere frutti rossi, mais giallo o pomodori alla foto di un piatto di insalata su sfondo bianco lo rende più attraente per il cervello. Se tutti gli utenti dei social abituati a postare cibo lo facessero – concludono – l’accettazione degli alimenti più salutari aumenterebbe, a scapito di quelli da evitare.
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Giornalista scientifica
E tutto questo è affiancato da sempre più influencer obesi che con la scusa della “body positivity” promuovono l’obesità come una cosa “normale”.
La vera normalità evidentemente è noiosa.
No, semplicemente la normalità non si nota… Se sei obesa o anoressica, ti notano e ti danno il like, se sei normale nessuno si accorge di te perché sei una goccia nell’oceano.
E i like portano soldi.
Il corpo e il peso sono un problema da sempre… Sono nata negli anni ’80 e già quando andavo alle medie e alle superiori si parlava di disturbi alimentari.
All’epoca, in assenza dei social media, si dava la colpa a modelle e concorsi di bellezza, dove la magrezza, insieme all’altezza, veniva associata alla bellezza. E, sempre in assenza dei social, gli haters erano i propri compagni e compagne di classe, che denigravano le ragazze cicciottelle.
Oggi il problema, presente da decine di anni, è semplicemente diventato più evidente, perché se prima le ragazze (e anche i ragazzi, anche se meno) anoressiche o bulimiche si nascondevano, oggi mostrano la propria sofferenza sui social.
Sarebbe ora di smetterla di dare la colpa a modelle, social o sportivi e di fare qualcosa di serio.