Si sta intensificando, un po’ in tutto il mondo, la ricerca sulle piante edule alternative alle poche coltivate negli ultimi decenni, allo scopo di individuare i semi delle specie più resilienti ai cambiamenti climatici, e aumentare l’agro-diversità. Tra le diverse testimonianze delle esperienze in corso, negli ultimi giorni sono stati pubblicati due studi che aiutano a capire in che modo ci si stia muovendo. Il primo racconta di una Cina abbastanza inedita, dove si cerca di coinvolgere l’enorme numero di contadini (non meno di 260 milioni di persone) che ancora vivono nei villaggi lontani dai grandi centri, per conoscere meglio centinaia di specie un tempo patrimonio comune dell’agricoltura e della dieta, e oggi a rischio di estinzione, insieme alle tecniche e alle conoscenze necessarie per la loro coltivazione.

Come raccontato in un lungo e dettagliato articolo uscito su Frontiers in Sustainable Food Systems, fino a poco tempo fa le uniche iniziative presenti – pur importanti – erano governative, e incentrare sullo studio della genetica dei vegetali esistenti, per rallentare la perdita di biodiversità (nel 1956 le piante coltivate erano infatti poco meno di 11.600, mentre nel 2014 erano diventate 3.200). In questo modo era emersa l’importanza di piante oggi meno diffuse di un tempo quali il miglio rosso, alcuni tipi di legumi, il sorgo bianco e diverse radici, ma il successo era comunque limitato alle specie più note. Non poteva bastare. Per questo i ricercatori della Chinese Academy of Sciences hanno messo mano a una vera e propria impresa: hanno analizzato e reso omogenei i dati contenuti in 27 banche del seme locali, e hanno istituito il National Seeds Network, un modello di rete per lo scambio di sementi che coinvolge i coltivatori in prima persona, fornendo anche formazione adeguata rispetto alle nuove tecnologie e alle caratteristiche di piante che molti di loro non sanno più coltivare, dotando chi aderisce di strumenti per migliorare e diversificare i propri campi.

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Semi del villaggio di Wangjinzhuang nella provincia di Hebei

L’articolo cita alcuni esempi come quello del villaggio di Wangjinzhuang, dove dall’anno dell’inaugurazione della cooperativa (il 2019) a oggi i membri che hanno aderito sono già 43 (26 dei quali donne). In totale, i contadini della zona hanno già fornito centinaia di varietà di semi, 82 delle quali già note. Per invogliare i contadini a raccogliere e portare nei depositi le sementi, è stato anche deciso che chi ne consegna un chilo tra quelle che possiede, ne riceve 1,5 kg (di altro tipo), insieme alla consulenza di specialisti dell’ibridazione, e a un ciclo di lezioni sulla coltivazione.

In un altro villaggio, in una zona dove si coltiva riso da 6.000 anni, questo approccio ha permesso di riportare in vita la coltivazione di un riso chiamato Suyunuo, molto aromatico, abbandonato da più di 30 anni e oggi tornato in forma biologica. E così via. La sensazione è che sia in corso un grande sforzo per valorizzare un patrimonio di semi che potrebbe andare perduto e che, al contrario, se conosciuto e sfruttato nel modo giusto, potrebbe essere parte della soluzione dei grandi problemi alimentari che la Cina ha davanti.

Si cercano semi le cui piante resistano molto meglio ai climi caldi, siccitosi, poco favorevoli,

Un’idea in fondo non diversa è quella che, al di là del Pacifico, sta perseguendo l’Università della Pennsylvania, in un progetto dedicato al sorgo. Questo cereale ha caratteristiche nutrizionali simili a quelle del mais, ma resiste molto meglio ai climi caldi, siccitosi, poco favorevoli, e oltretutto produce frutti e quindi farine senza glutine. Ma ha un tallone d’Achille: è molto sensibile a un fungo presente negli Stati Uniti. Per questo i ricercatori hanno raccolto campioni del fungo (Colletotrichum sublineola), di terreno e di sorgo nel 2011, 2012 e 2016 in sei zone dove si stava iniziando a coltivare sorgo, e hanno verificato quanto le oltre 150 diverse varietà studiate fossero o meno suscettibili all’infezione, e in che quantità lo stesso fosse presente nelle differenti aree coltivate. Come riferito su Crop Science. Ciò ha permesso di individuare ben 35 varietà molto resistenti al fungo naturalmente, che hanno confermato la loro natura anche in esperimenti condotti in serra, nella locale sede dell’Università.

Queste informazioni saranno ora utilizzate per concentrare gli esperimenti nei campi e per approfondire, in laboratorio, quali sono le particolarità che conferiscono la resistenza naturale, al fine di poterle sfruttare al meglio.

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