Negli ultimi cinque anni, la quantità di sale nei prodotti da forno britannici è rimasta pressoché immutata, nonostante i governi siano da tempo impegnati in campagne di vario tipo finalizzate proprio alla riduzione del sodio. I prodotti peggiori sono il pane e gli snack salati, mentre qualche miglioramento si è visto nei cereali da colazione, anche se gli obiettivi prefissati dalle agenzie sanitarie, riassumibili nel target massimo di 6 grammi al giorno di sale (pari a 2,4 milligrammi di sodio) o in quello dell’Oms di 5 grammi quotidiani, sono ancora lontanissimi. È impietoso il quadro che esce da un dettagliato studio dell’Università di Oxford, pubblicato su PLoS Medicine, perché dimostra la totale inefficacia di quanto fatto finora, e rafforza la posizione di chi pensa (e sono in molti) che sia giunto il momento di introdurre obblighi stringenti.
Dal 2003, i vari governi che si sono succeduti fino a oggi, hanno indicato alle aziende dei valori soglia ai quali uniformarsi, lasciando però ad esse la decisione se riformulare o meno i prodotti, processi sempre complessi, che richiedono anni di studi e investimenti. Finora non era molto chiaro in quale misura gli obiettivi fossero stati centrati. Per questo, i ricercatori hanno compiuto un’indagine sul campo di cinque anni, per monitorare eventuali modifiche nei prodotti venduti nei supermercati (non nei ristoranti o bar), dal 2015 fino al 2020. A tal fine hanno analizzato le nove categorie merceologiche che contribuiscono maggiormente all’apporto di sale nella dieta degli adulti (pane; cereali da colazione; burro e creme spalmabili; formaggi; carne, pesce e sostituti; fagioli, patate e verdure trasformati; piatti pronti, zuppe e pizza; salse e condimenti; snack salati), per un totale di 8.000-9.500 prodotti di 400 diversi marchi per ogni anno considerato.
Il risultato, preoccupante perché oltretutto esclude il sale assunto nei luoghi della ristorazione e aggiunto quando si cucina a casa, è stato che il contenuto medio è sceso solo del 5%, passando da 1,04 grammi ogni 100 del 2015 a 0,99 grammi su 100 del 2020: una differenza non statisticamente significativa. Come detto, i cereali sono i prodotti che sono migliorati di più, con un -16%, mentre il pane è rimasto quasi identico (-2%). Le categorie di prodotti con più sale sono risultate essere gli snack salati e i formaggi, entrambi con 1,6 grammi su 100, quando il limite per considerare un prodotto ‘a elevato contenuto di sale’ è di 1,5 g nel Regno Unito. Sono andate male anche carne, pesce e sostituti, che invece di diminuire la quantità di sodio, nell’ultimo anno l’hanno aumentata, come hanno fatto alcuni alimenti in scatola come i fagioli e le zuppe, o la pizza surgelata e in generale i piatti pronti, tutti prodotti di cui lo studio contiene un dettagliato elenco.
Anche analizzando i dati da un altro punto di vista, e cioè la quantità di sale acquistata attraverso i prodotti, emerge la stessa tendenza: la diminuzione registrata nei consumi medi (dai 2,41 grammi al giorno del 2015 ai 2,25 del 2020) è minima, come lo è il quantitativo di sale assunto dedotto in base agli acquisti, di soli 0,16 grammi a persona (pari a -6,7% rispetto al 2015). E la maggior parte del sale arriva da tre categorie: pane (24%), carne, pesce o sostituti vegetali (19%) e formaggi (12%).
I motivi della resistenza possono essere diversi: il sale, oltre a conferire il sapore, serve infatti per la texture e come conservante, e diminuirne la concentrazione non è semplice. Inoltre, modificare le abitudini dei consumatori è altrettanto complicato, commentano gli autori. Tuttavia è anche indispensabile, e per questo è giunto il momento di introdurre norme che obblighino anche alla trasparenza assoluta.
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Giornalista scientifica