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Yogurt, bambino sovrappeso metroI bambini e le bambine obesi o sovrappeso hanno tanto bisogno di consigli alimentari quanto di sentirsi accettati dalla famiglia e dagli amici, è questo ciò che viene evidenziato in uno studio condotto da Amanda Harrist e Laura Hubbs-Tait, professoresse di Human Development and Family Science presso l’Oklahoma State University. Per giungere a questa conclusione, le due studiose hanno seguito un gruppo di quasi 1.200 bambini dalla prima alla quarta elementare di 29 scuole dell’Oklahoma rurale con l’obiettivo di capire quanto incidano lo stile di vita familiare e le dinamiche tra parenti e coetanei.

Sono state quindi individuate e combinate tra loro tre tipologie d’azione. La prima riguardava lo stile di vita familiare ed era concentrata sulla sana alimentazione e sull’attività fisica: i genitori hanno monitorato il consumo di alimenti e l’attività dei figli e hanno imparato a evitare eventuali conflitti riguardanti il cibo (per esempio, discussioni sulla possibilità di avere il dessert o il bis). Il secondo intervento riguardava le dinamiche familiari e si è focalizzato su una gestione positiva delle emozioni: ai bambini è stato insegnato a esprimere le loro sensazioni, mentre ai genitori è stato spiegato il valore del conforto e della comprensione, in modo tale da limitare la tendenza a ricorrere al cibo nei momenti di turbamento. Il terzo intervento, invece, ha agito sull’accettazione sociale tra coetanei. Visto che i ragazzini grassi sono meno accettati dai compagni di classe, si è lavorato sull’accettazione reciproca nel contesto della scuola. Alla fine, è stato evidente come le bambine e i bambini sostenuti da tutte e tre le tipologie di intervento hanno registrato una significativa diminuzione dell’indice di massa corporea.

L’accettazione sociale tra coetanei si è rivelata particolarmente importante, soprattutto per i ragazzini con forme di obesità più severa

L’esperimento conferma ancora una volta come, in un percorso di perdita di peso, la sfera emotiva rappresenti un elemento imprescindibile non solamente per l’efficacia della dieta, ma anche per imparare a riconoscere i meccanismi psicologici che portano al consumo eccessivo e compulsivo di cibo. Stefania Ruggeri, ricercatrice e nutrizionista del Crea – Alimenti e Nutrizione, spiega come la questione corporea intrecci aspetti differenti, come la consapevolezza di sé, l’accettazione del proprio fisico e l’attenzione verso le proprie emozioni.

Nella sua esperienza, quanto conta l’aspetto psicologico nel processo di dimagrimento?

Perdere peso, soprattutto per chi soffre di obesità e sovrappeso, significa iniziare a vivere il proprio corpo in modo completamente diverso, cambiare veste, rinnovarsi e, quindi, non solo modificare le proprie abitudini alimentari. Chi soffre di obesità e di sovrappeso spesso è sfiduciato dai continui fallimenti delle diete. Secondo la mia opinione, la causa di tali fallimenti è frequentemente il modo sbagliato con cui molti professionisti propongono ai pazienti i progetti di dimagrimento, basati su prescrizioni dietetiche, restrizioni e poco ascolto. C’è bisogno di un approccio nuovo, che sappia convincere il paziente che il cambiamento è possibile, che la perdita di peso è importante soprattutto per la propria salute e che raggiungere il risultato richiede tempo: possono esserci cadute e soste ma non si deve mai mollare, perché poi si riparte. Insieme.

Quando il corpo diventa goffo e non ci si riesce a muovere con scioltezza si instaurano circoli viziosi che occorre rimuovere progressivamente

Si tende spesso a pensare che chi non riesce a perdere peso sia pigro o troppo goloso. È veramente così oppure entrano in gioco altri fattori che poco hanno a che fare con un approccio del tipo “se vuoi dimagrire, mangia di meno”?

L’obesità è una patologia complessa, spesso provocata da traumi psicologici in cui si innescano meccanismi metabolici che non aiutano il paziente a perdere peso. Quella che chiamiamo impropriamente golosità è spesso la necessità di riempirsi di cibo per colmare insoddisfazioni affettive e lavorative, per riempirsi di qualcosa che manca, è la conseguenza al fatto di non riuscire a trovare un nuovo interesse personale. Nelle lezioni universitarie evidenzio come spesso i bambini si facciano chiamare più volte prima di arrivare a tavola, perché rapiti dai giochi, dai loro interessi. Spostare la sfera dell’interesse dal cibo ad altro può già essere un modo per ridurre l’assunzione sfrenata di alimenti. Riguardo alla pigrizia, è ovvio che quando il corpo diventa goffo e non ci si riesce a muovere con abilità e scioltezza, quando ci si vergogna anche con se stessi, il divano è l’unica soluzione, ma piano piano si può cambiare, partendo da semplici e piccole camminate.

Oltre all’educazione alimentare, quanto è importante imparare ad accettare il proprio corpo e sapere che non esiste un peso ideale, ma il peso adatto alla propria persona?

Non amo molto l’espressione educazione alimentare, credo invece che dovremmo promuovere processi di consapevolezza sulle proprietà dei cibi, su come sceglierli durante la giornata, sul movimento fisico e sui benefici di un comportamento salutare. Solo con la comprensione si attiva il cambiamento. Comunque sì, non esiste il peso ideale: ognuno di noi sente qual è il peso adatto a sé, il peso che lo fa sentire ‘tranquillo’. Ovviamente si tratta di un percorso da fare insieme a un professionista.

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Spesso le mamme contribuiscono a collegare il cibo alla modulazione dell’emotività, conferendogli un ruolo di premio o di consolazione

Serie tv e film ci hanno abituati a considerare il comfort food come una coccola nei momenti di scoraggiamento. È ormai cult la scena di Bridget Jones che affoga i suoi dispiaceri sentimentali nel gelato. Si tratta di un’abitudine ‘pericolosa’?

Ognuno di noi ha il proprio comfort food: il cibo della consolazione. Dopo una giornata di stress o dopo una sconfitta o una perdita affettiva spesso ci rifugiamo nel cibo. In parte è dovuto anche a come siamo stati educati da bambini. Spesso le mamme, non per colpa loro, ma un più che altro per consuetudine, ricompensano i figli con un gelato o del cioccolato se qualcosa è andato male o li premiano nello stesso modo quando qualcosa è andato bene. Così si memorizza fin da piccoli che il cibo non serve solo come nutrimento, ma anche per qualcos’altro, per un’autoregolazione emotiva. Se l’autoregolazione emotiva con il comfort food è occasionale, è del tutto normale, ma se invece è un meccanismo quotidiano e ripetuto, allora diventa pericoloso e, insieme al paziente, bisogna scoprire quali sono le leve dell’insoddisfazione.

Che relazione esiste tra cibo ed emozioni?

Fortissima. Esistono dei cibi che ci accompagnano durante la nostra vita e ai quali diamo significati emotivi importanti: il dolce preferito che ci preparava la nonna quando eravamo bambini  ci lega al suo ricordo, i cibi del nostro primo appuntamento amoroso. La disciplina dell’Emotional Eating ha dimostrato però che, a volte, mangiamo per modulare i nostri stati emotivi spiacevoli per tentare di placarli, colmarli, modificarli, attraverso le sensazioni appaganti derivanti dal cibo. Le nostre emozioni possono indirizzarci verso alcuni cibi. Preferiamo i cibi dolci quando abbiamo delusioni d’amore o carenze affettive perché il sapore dolce ci riporta all’infanzia, con un atto consolatorio. I cibi grassi quando abbiamo una sensazione di vuoto: i grassi impiegano tanto tempo per essere digeriti. Impossibile rompere questo legame naturale se, come ho detto, è un comportamento saltuario, se invece è ripetuto e compulsivo può essere modificato con un bel percorso verso l’amore per se stessi e un sano rapporto con il cibo.

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