Il 5 maggio è entrata in vigore una legge regionale che, per tre anni, vieta la pesca dei ricci nei mari pugliesi. Questa norma impone restrizioni più drastiche rispetto a quanto previsto dal Decreto ministeriale che regola la pesca dei ricci (12 gennaio 1995) stabilendo metodi di pesca, quantità ammesse e dimensioni, sia per i pescatori professionisti che per la pesca sportiva. Lo stesso decreto, fra l’altro, sancisce il divieto di pesca dei ricci nei mesi di maggio e giugno in tutta Italia. Attenzione quindi, perché in questi mesi non si dovrebbero trovare nei ristoranti ricci di provenienza italiana, a meno che non siano stati congelati nel periodo in cui la pesca era autorizzata.
Perché siamo arrivati a vietare la pesca dei ricci? L’abbiamo chiesto a Valentina Tepedino medico veterinario, esperta del settore ittico.
“La norma del 1995 – dice Tepedino – e ancora di più le recenti leggi emanate da alcune regioni, sono considerate necessarie per contrastare la diminuzione di questa specie. Fino a non molti anni fa la pesca dei ricci si poteva definire artigianale. Ora però è diventata sempre più efficiente, ma soprattutto è aumentata la domanda ed è stata registrata una diminuzione della loro presenza in tutto il Mediterraneo. Le tecniche di pesca possono essere invasive e danneggiare l’ambiente. In ogni caso, un prelievo intenso di questi organismi, che fra l’altro vivono fino a 7-8 anni, altera gli ecosistemi.”
I ricci sono una prelibatezza proposta da un numero crescente di ristoranti, inoltre da qualche tempo, soprattutto al sud, dove questo alimento è molto amato, si trovano in commercio confezioni di “polpa” già pronta per il consumo, aspetto che favorisce l’aumento della domanda. La denominazione commerciale di “ricci di mare” è ammessa solo per la specie Paracentrotus lividus, il cosiddetto “riccio viola” o “riccio femmina” cui, nel linguaggio comune si contrappone il “riccio nero” o “riccio maschio”, non commestibile. In realtà il secondo tipo appartiene a un’altra specie: Arbacia lixula. Di P. lividus, si consumano sia i maschi che le femmine e la “polpa” utilizzata per condire gli spaghetti è fornita dalle loro gonadi, cioè gli organi riproduttivi. Oltre a questa specie, in Italia è ammessa la vendita di diverse altre specie di ricci, provenienti dall’estero, che, quando poste in commercio, devono essere indicate con la denominazione specifica.
Questa norma sarà sufficiente per cambiare la situazione e tutelare i ricci di mare e il loro ambiente?
“In una regione come la Puglia – fa notare Tepedino – in cui questa risorsa è molto importante, avrà sicuramente qualche effetto e potrà limitare il prelievo di questa specie. I controlli, però, affidati alla Capitaneria di porto, sono importanti ma non sufficienti, senza un coinvolgimento anche di chi poi ricerca, acquista e consuma questi animali. Purtroppo, il problema della pesca abusiva è piuttosto importante e sia i ristoratori che i cittadini dovrebbero acquistare solo prodotto tracciato, di cui sia possibile ricostruire con sicurezza la filiera. Per arrivare a questo sarebbero necessarie campagne di informazione e sensibilizzazione capillari, perché a volte i ristoratori e ancora di più i consumatori non hanno coscienza degli effetti negativi della pesca eccessiva e non conoscono le norme che regolano il prelievo di questa specie.”
Sta quindi anche a noi informarci e chiedere chiarimenti ai ristoratori, quando nel menu troviamo questo ingrediente così come quando ne troviamo la polpa o gli esemplari in vendita senza una etichetta chiara e con tutte le informazioni di legge.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
Si dovrebbe vietare la vendita e la preparazione di questo alimento del tutto : ristoranti e pescherie, e qui fare controlli a tappeto. Istituire un registro degli acquisti di prodotto importato e controllare gli acquirenti e le quantità movimentate con controllo dei piatti serviti. Purtroppo ci vorrebbe l’intervento della GDF insieme ai corpi che controllano l’ applicazione delle regolamentazioni del Cites ovvero gli ex Forestali ora confluiti nell’Arma
Così dopo vent’anni di autorizzazioni di pesca ,azienda e famiglia sostenuta dal mio lavoro ,preciso autorizzato ,all’età di 50 dovrei cercare un nuovo lavoro per mantenere la mia famiglia . Una domanda lei sà come si ottiene un’autorizzazione per la pesca del riccio di mare? Per caso lo sa che sono a numero chiuso nel compartimento marittimo di cui si fa richiesta !I recquisiti che occorrono?
Prima di prendere decisioni drastiche bisogna parlare con i professionisti del settore ,quelli che sono a mollo 10 mesi l’anno se il mare fosse in condizioni ottimali per la pesca .
Una legge fatta così non serve a nulla, ferma e danneggia solo i pescatori professionali che rispettano le leggi già in vigore da più di 30 anni. Al pescatore di frodo non importa un mese, un anno 5/6anni di fermo, tanto con le sanzioni amministrative, se lo dovessero beccare, si farà il falò in spiaggia a ferragosto.
Si ci credo proprio che in Puglia rispetteremo il diviet di pesca dei ricci. Piuttosto che rinunciare ai ricci e alla pesca certi personaggi si farebbero tagliare un braccio