Il regolamento claims (1924/06) presenta troppe criticità: rende macchinosa la validazione di proprietà benefiche e non blocca le pubblicità ingannevoli
Il regolamento claims (1924/06) presenta troppe criticità: rende macchinosa la validazione di proprietà benefiche e non blocca le pubblicità ingannevoli
Roberto La Pira 7 Febbraio 2014Sei anni dopo l’entrata in vigore del regolamento claims (CE) n. 1924/06, sulla disciplina delle indicazioni nutrizionali e relative alla salute (nutrition & health claims), le norme sono ancora prive di alcuni elementi allora indicati come indispensabili, quali i profili nutrizionali (reg. cit., articolo 4). Detto ciò possiamo comunque affermare che la disciplina risulta eccessivamente rigida – con gravi oneri burocratici ed economici sia per le amministrazioni, nazionali ed europee, sia per gli operatori – e allo stesso tempo costruita in modo da non riuscire a ostacolare violazioni più gravi.
Il regolamento claim, nelle apprezzabili intenzioni del legislatore, aveva in origine lo scopo di introdurre la possibilità di informare correttamente i consumatori europei riguardo alle proprietà nutrizionali e salutistiche degli alimenti. Tutto questo doveva avvenire solo mediante notizie chiare e armonizzate, scientificamente fondate e confermate da evidenze analitiche. Per ogni proprietà nutrizionale il legislatore impone di considerare i diversi livelli di evidenza scientifica (studi osservazionali, test clinici …) da tener conto nella incisività dei messaggi riportati sulle confezioni. Ciò significa che ci si sarebbe potuti accontentare della letteratura tradizionale a conforto di indicazioni sul contributo di alcune sostanze alle normali funzioni dell’organismo ( functional claims), senza rinunciare a studi clinici “in vivo” per dimostrare più approfonditamente la capacità dell’alimento di eliminare i fattori di rischio di una malattia.
In fase di applicazione tuttavia, si è giunti a una rigidità tale da pretendere addirittura i test clinici in doppio cieco contro placebo su individui sani, da pubblicare su riviste scientifiche più importanti e autorevoli ad alto ‘impact’ e assoggettare a prestigiose ‘peer review’ (reg. CE 353/08), anche per validare notizie semplici e consolidate. Un esempio clamoroso è quello delle prugne secche, il cui ruolo nel favorire il transito intestinale è stato messo alla prova scomodando l’EFSA con ben due valutazioni scientifiche e altrettanti dibattiti tra Commissione europea e rappresentanti degli Stati membri, prima dello scrutinio di Parlamento europeo e Consiglio in vista della pubblicazione in 24 lingue sulla Gazzetta Ufficiale.
Ancora adesso esistono procedure macchinose e di esito incerto che rischiano di mettere fuori gioco ricerche fondamentali come quella sui probiotici, che vede l’Italia tra i leader mondiali. Procedure complesse costringono a ricorrere a un regolamento per convalidare notizie non certo epocali, come ad esempio il contributo delle fibre di barbabietola all’incremento della massa fecale (in GUUE 18.1.14).
A dispetto di queste rigidità normative, paradossalmente si continua ad assistere su web, carta stampata e tv, a palesi violazioni di legge come da ultimo quella di Carcioforte, che reclama “un’azione dimagrante 6 volte maggiore di quella degli ‘shots’ di carciofo visti in tv” (le bevande pubblicizzate sul piccolo schermo), mostrando le incredibili foto di donne corpulente trasformate in Barbie dal presunto miracolo del carciofo di Laon.
È giunta l’ora di una seria riflessione su tale regolamento e sulla sua applicazione.
Dario Dongo
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
La riflessione è interessante, ma la questione è complessa. Una normativa comunitaria che armonizzasse le indicazioni nutrizionali e salutistiche era indubbiamente necessaria, sia per la crescente attenzione di imprese e consumatori, sia per la necessità di evitare la frammentazione del mercato unico. Il compito era inevitabilmente titanico e difficile: si andava da situazioni di grande liberalità, come nel Regno Unito o in Italia (su alcuni temi), a situazioni di totale chiusura, come, per esempio, in Danimarca. Si poteva far meglio ma i problemi erano inevitabili. Certamente prima era peggio.
Nel dettaglio, se poteva essere organizzato meglio il procedimento, si deve dare atto ad EFSA dell’enorme lavoro svolto in poco tempo. Se EFSA non ha fornito guidance adeguata su probiotici e altre sostanze, non è certo con la precedente “manica larga” che si tutelano consumatori e concorrenza e si promuove innovazione. Anche per condannare un ladro di mele ci vuole un processo, con avvocati e giudici, che magari finisce in cassazione – può sembrare inutile e assurdo perché la colpevolezza è “ovvia” ma di regole e procedure vive sia la giustizia che la scienza, anche se può sembrare che basti il vecchio buon senso popolare.
In Italia, sarebbe stata opportuna una norma che potesse rendere più capillari i controlli, e la bozza di normativa sanzionatoria, con le sue fatali carenze, è stata un’occasione sprecata da parte di chi la ha redatta. L’Autorità garante dovrebbe operare meglio, ma sopratutto di più anche perché in grado di comminare sanzioni con una qualche capacità deterrente, al contrario degli altri organi di controllo le cui sanzioni sono efficaci solo per imprese di piccole dimensioni.
Bravo Luca: sono d’accordo al 110 %