Le etichette di prodotti alimentari sono da tempo sotto osservazione. Diciture incomplete o assenti, in certi casi scorrette o poco veritiere hanno stimolato la riflessione critica dell’opinione pubblica e dei legislatori sia sulle carenze che sulle potenzialità di uno strumento capace di raggiungere tutti i consumatori e potenzialmente in grado di aiutarli a compiere scelte più razionali e consapevoli.
Tra i grandi protagonisti del dibattito vi è da sempre il sale, o meglio il suo componente più importante, il sodio, responsabile, se assunto in eccesso, dell’innalzamento della pressione sanguigna. Poiché, stando ai dati forniti da diversi studi, gran parte della popolazione mondiale ne consuma davvero troppo, l’indicazione della concentrazione di sodio è ormai divenuta obbligatoria in quasi tutti i paesi.
Lo stesso non si può dire per un altro elemento molto presente, potenzialmente benefico ma per alcune persone pericoloso: il potassio. Quest’ultimo può rimpiazzare il sodio in alcuni sali medicati e si trova in molti alimenti, e poiché sostituisce il sodio senza avere effetti pressori, può contribuire a tenere sotto controllo la pressione e ad abbassare il rischio di malattie cardiovascolari e diabete.
Tuttavia, nel caso di alcune patologie come quelle renali la sua concentrazione deve necessariamente restare molto bassa: a questi malati viene consigliata sovente una dieta a basso contenuto di potassio. Ebbene, queste persone raramente riescono a rispettare le indicazioni mediche perché il più delle volte non hanno la possibilità di sapere quanto potassio sia contenuto in un certo alimento.
Partendo da questo presupposto, Susan Kansagra, membro del New York City Department of Health and Mental Hygiene, ha condotto un’indagine su oltre 6.500 prodotti appartenenti a 61 categorie e ha scoperto che solo 500 di essi contenevano l’indicazione del contenuto di potassio.
Come sottolinea il suo lavoro, pubblicato su JAMA Internal Medicine, la metà dei casi concerneva cinque categorie: succhi vegetali, patate cucinate in vario modo, cereali per la prima colazione, pancakes e condimenti. Lo studio non evidenzia comportamenti illeciti poiché negli Stati Uniti, come in Italia, l’indicazione del potassio è facoltativa (tranne nei casi in cui il prodotto vanti in etichetta o nella pubblicità uno specifico beneficio legato al potassio).
Susan Kansagra ha già presentato alla Food and Drug Administration la richiesta di introdurre l’obbligo dell’indicazione della quantità di potassio in etichetta. La motivazione la spiega lei stessa: «Le diete ad alto tenore di potassio aiutano a far diminuire il sodio e in genere mantenere un buon rapporto tra i due elementi è importante per la salute. Tuttavia, secondo molti studi la popolazione mondiale assume poco potassio e non arriva ai livelli minimi raccomandati». Per aumentare la quantità di potassio bisognerebbe consumare più frutta e verdura fresche, pesce, carne, soia e latticini.
Un discorso analogo ma contrario vale per i cittadini che hanno un deficit renale anche lieve e devono stare attenti alla quantità di potassio ingerita. Un’altra cautela riguarda le possibili interazioni tra alcuni farmaci (per esempio tra gli anticoagulanti coma la warfarina) e il potassio.
Insomma, tra le molte indicazioni che dovrebbero essere inserite nelle etichette nutrizionali quella relativa al potassio non è affatto da trascurare.
Agnese Codignola
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Giornalista scientifica