Quando si tratta di acquistare carne, i consumatori si orientano sempre più spesso verso alimenti provenienti da allevamenti che rispettano il benessere animale e l’ambiente. Si tratta di principi fondamentali alla base del mondo biologico. Questa tendenza di mercato non risparmia il pollo. Gli allevamenti bio però sono relativamente giovani rispetto ad altri settori come quello dell’ortofrutta e dei prodotti a base di cereali. Forse per questo motivo i consumatori non conoscono e non sanno valutare il valore aggiunto degli animali allevati in modo bio e i costi decisamente superiori che comporta la gestione.
Il mercato del pollo biologico ha una dimensione limitata, con percentuali che non arrivano all’1% della produzione convenzionale. Tuttavia nell’ultimo biennio si è registrato un aumento del 30%, e per il 2018, le stime prevedono un’ulteriore crescita, nonostante il prezzo di vendita al dettaglio risulti elevato (anche doppio rispetto al convenzionale). Cifre così elevate si giustificano perché l’allevamento di polli bio richiede investimenti consistenti, un maggior carico di lavoro e perché garantisce un maggiore benessere agli animali. Negli allevamenti è previsto un affollamento decisamente minore grazie alla presenza di un’area molto grande ricoperta di vegetazione dove gli animali possono esprimere al meglio i comportamenti naturali.
La possibilità di razzolare all’aperto e gli spazi più ampi comportano costi maggiori ma si tratta di fattori che rappresentano un vantaggio anche per i consumatori. I polli con libero accesso alla vegetazione mangiano oltre al mangime a base di soia e cereali, anche erba e fiori ricchi di antiossidanti e queste sostanze, insieme agli acidi grassi polinsaturi migliorano le caratteristiche nutrizionali della carne.
Per superare alcuni ostacoli che creano problemi all’allevamento dei polli da carne bio e fornire un supporto scientifico ai produttori, il Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura del Ministero per le politiche agricole ha avviato dei progetti sul campo.
Il primo ostacolo riguarda le razze di pollo da carne da utilizzare. Molti allevatori preferiscono genotipi a lento accrescimento, cioè animali che arrivano all’età di macellazione (81 giorni ovvero il doppio rispetto ai normali polli) in ottimo stato di salute e benessere. Tuttavia questi animali, dal petto piccolo e muscolatura tenace, hanno caratteristiche poco commerciali (muscolatura tenace e sapore ben caratterizzato) per il mercato italiano che predilige animali con petti grandi e cosce tenere. Per questo motivo alcuni allevatori bio in passato hanno provato ad utilizzare razze da carne tipiche dell’allevamento intensivo, ma il risultato è stato deludente. Questi animali “progettati” per essere macellati dopo 40 giorni, arrivano a 80 in pessime condizioni che ne penalizzano la vendita.
Lo studio dell’adattabilità agli allevamenti bio delle principali razze è uno dei temi del progetto del Crea TIPIBIO. La ricerca ha lo scopo di trovare le razze più adatte, cercando di venire incontro alle esigenze del mercato (petto e cosce più voluminose) senza perdere di vista il benessere animale. Per il momento sono state prese in considerazione sei linee genetiche ibride, intermedie tra il broiler da carne convenzionale e razze a lento accrescimento.
La seconda questione riguarda la necessità di stabilire un legame tra l’allevamento biologico e le coltivazioni agricole sui terreni limirofi. Il problema dell’allevamento di polli da carne è che, al contrario di quello di bovini, capre e pecore, è da tempo slegato dalla terra, perché da decenni gli allevatori comprano i mangimi per gli animali dalle aziende produttrici e poi non smaltiscono gli scarti della produzione nei campi come si faceva una volta. Si tratta di un sistema difficilmente modificabile per la cronica carenza in Europa di materie prime proteiche per la mangimistica avicola coltivata in loco. Oggi l’80-90% della soia utilizzata per dare a mangiare e a polli e galline viene importata dall’estero. L’obiettivo dei ricercatori è mettere in piedi una filiera in cui l’allevatore in prima persona produce sui propri terreni le materie prime destinate a diventare mangime – principalmente soia, ma anche pisello proteico e favino – a rotazione con cereali.
Il cerchio virtuoso si completa con l’utilizzo della pollina prodotta dagli animali per fertilizzare i campi. Si tratta di una filiera difficile da realizzare perché gli allevatori sono poco assistiti in questo percorso, che però potrebbe essere un’occasione per valorizzare il prodotto. Adesso possiamo dire che i primi passi di questo percorso ci sono e questo è un fatto molto importante.
© Riproduzione riservata
[sostieni]
Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
In tutti i punti trattati nell’articolo sembrano emergere anche le soluzioni possibili, se si scelgono i migliori fattori quali/quantitativi necessari a fare di questi allevamenti una produzione sostenibile, ma anche accettata e remunerativa.
Le razze a breve accrescimento gestite con i principi di rispetto degli spazi e con un’alimentazione ricca di nutrienti proteici, ma completa di un po’ di libero razzolamento, potrebbe essere un sano compromesso al raggiungimento dello scopo.
Il prezzo finale, come per ogni alimento, deve essere adeguato al prodotto offerto e non necessariamente minimale solo per espandere i volumi di vendita.
Perché è il margine che mantiene in vita le aziende e non la povertà di una filiera che offre prodotti di scarsa qualità totale non sostenibile. Il poco ma di buona qualità totale, costa meno e rende di più del tanto che impatta, inquina e forse malnutre.