Pollo insostenibile: l’allevamento intensivo amplifica i rischi sanitari ed economici. Ne parla un articolo di Corrado Fontana su Valori.it
Pollo insostenibile: l’allevamento intensivo amplifica i rischi sanitari ed economici. Ne parla un articolo di Corrado Fontana su Valori.it
Redazione 6 Giugno 2018L’allevamento intensivo, anche quello dei polli, è sempre più spesso sotto i riflettori per le problematiche sanitarie, ambientali ed etiche che porta quasi sempre con sé. Riproponiamo un articolo pubblicato su Valori, a firma di Corrado Fontana, che descrive le criticità e la scarsa sostenibilità della filiera avicola.
L’articolo di Valori
Il pollo e le uova sono buoni e piacciono ai bambini. La carne di pollo è magra. Il pollo costa piuttosto poco rispetto ad altre carni. Ma a quale prezzo? E chi guida il mercato? In parte sono i consumatori, naturalmente, con la loro domanda in costante crescita a influenzare l’offerta. Ma, soprattutto, a tirare i fili sono i giganti internazionali dell’allevamento avicolo intensivo. Compagnie che determinano politiche globali, pratiche d’allevamento e prezzi. E tra le prime 10 non c’è neanche una società europea.
Tre superpotenze al comando della produzione di pollo
A farla da padroni sono innanzitutto Brasile, Stati Uniti e Cina, un trio di vere superpotenze del settore. Solo considerando le società incluse in questa top ten pubblicata da Wattagnet (rivista online specializzata), il Brasile – con cui l’Italia ha in atto un blocco delle importazioni – conta 5,2 miliardi di capi macellati ogni anno. Gli USA 3,2 miliardi e la Cina 1,6 miliardi.
Numeri impressionanti che non devono stupire. Solo gli USA nel 2016 potevano infatti vantare una popolazione di polli da carne di oltre 8,7 miliardi di capi in oltre 230mila allevamenti. E i numeri sono impressionanti anche sul piano economico finanziario: le due multinazionali carioca, Jbs e Brf, chiudevano il 2017 con fatturati da 49,4 e 10,8 miliardi di dollari.
Anche l’Italia compare nella classifica globale. Prima con i 350 milioni di polli macellati del Gruppo Veronesi (Aia), che nel 2017 ha quasi raggiunto 3 miliardi di euro di fatturato (+6,2% sull’anno precedente) e un export in oltre 70 paesi. Poi con i 250 milioni di capi di Amadori. Mentre il terzo big italiano, Fileni, non vi rientra.
Allevamento intensivo
Carne a poco prezzo. Ma c’è un aspetto sottovalutato: l’enormità dei capannoni d’allevamento e la compresenza sotto lo stesso tetto di centinaia di migliaia di polli e galline ovaiole porta ad amplificare i rischi. Sanitari ed economici. Qualora qualcosa vada storto. Per non dire del benessere animale, oggigiorno tutelato dall’EFSA, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare. Una catena di montaggio vera e propria esposta a limiti messi in evidenza dai momenti di crisi. Le numerose epidemie di influenza aviaria e scandalo delle uova al Fipronil su tutti. E il nostro Paese non fa differenza. Anzi…
In Italia nel 2016 sono stati macellati 525 milioni di polli (fonte Istat), cioè mille animali al minuto. Il 99,5% di questi sono cresciuti in allevamenti intensivi (fonte Sinab) a velocità “supersonica”: in una quarantina di giorni il pulcino arriva a pesare anche due chili e mezzo.
Rischi amplificati: strage aviaria
Il 2017 è stato quindi l’ennesimo anno funestato dall’ultima versione del virus dell’influenza aviaria, che ha costretto l’Europa ad abbattere oltre 10 milioni di animali col gas nei primi 11 mesi dell’anno. Una strage cui il nostro Paese, primo nella Ue, ha contribuito con almeno 2,7 milioni di esemplari, soprattutto dalle province di Milano, Brescia, Cremona, Mantova, Bergamo, Lodi, Sondrio Pavia, e poi Asti, Ferrara, Rovigo, Verona, Roma. Un’ecatombe di pennuti che continua, visto che ancora a marzo 2018 si abbattevano 135mila capi nella bassa bergamasca.
Il fatto è che gli allevamenti intensivi concentrati in aree ridotte amplificano il danno una volta che il virus abbia superato le biosicurezze. «Le grandi industrie alimentari italiane hanno spinto per costruire i capannoni degli allevamenti dove si trovavano i loro impianti di macellazione, per esigenze logistiche», ammette Giorgio Apostoli, responsabile zootecnia di Coldiretti. «E questa non è stata una scelta felice, perché abbiamo delle zone in cui la presenza di avicoli è altissima».
Non solo. I focolai secondari – specie in Lombardia – si sono caratterizzati per una «diffusione “laterale” del virus (cioè da un allevamento a un altro, ndr) – spiega Andrea Maroni Ponti, veterinario del ministero della Sanità – dovuta all’altissima densità avicola, magari veicolata dai mezzi di trasporto, o persino attraverso i sistemi di ventilazione forzata tra aziende distanti poche decine di metri. Un tipo di problematica connessa anche alla velocità con cui si fanno gli abbattimenti e lo smaltimento delle carcasse».
Pollo e fipronil, per colpa di pochi…
Biosicurezze superate anche a proposito dello scandalo della contaminazione da fipronil, scoppiato a luglio 2017. Avviato per colpa di pochi allevatori fraudolenti, segnatamente belgi e olandesi, ha però coinvolto ben otto Stati membri data l’interconnessione della filiera dei polli e delle uova: Paesi Bassi, Italia, Germania, Polonia, Ungheria, Francia, Slovenia e Grecia.
La sostanza tossica venne infatti aggiunta in modo non autorizzato e non dichiarato in un antiparassitario. Le contromisure a tutela della salute pubblica hanno decimato 670 allevamenti in Europa, togliendo dal mercato circa 20 milioni di capi non programmati, sul totale di circa 300 milioni di galline.
Un impatto anche economico non da poco che, associato a quello contemporaneo dell’aviaria, portò alla penuria di disponibilità di uova e ovoprodotti, colpendo sia i supermercati che le aziende di trasformazione. Anche perché la quotazione ufficiale media di un quintale di uova intere nell’Unione europea era arrivata a 193,03 euro (con un aumento del 52,8% in 12 mesi a novembre). Senza contare indennizzi pubblici, costi di analisi e profilassi e perdite di profitto.
Secondo il rapporto finale dei 5.439 campioni di uova e muscolo/grasso di pollo analizzati in Europa alla ricerca di fipronil e altre sostanze non pochi, 742, contenevano infatti quantità di residui superiori ai limiti legali.
Corrado Fontana – Valori
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Dovremmo vietare gli allevamenti intensivi nel territorio italiano e l’importazione di carne che non rispetti codici sostenibili.
non serve vietare, basta comprare il pollo dal contadino. Tu lo stai facendo?
No Andrea, invece vietare serve a promuovere politiche di allevamento ecosostenibili per tutti.
Non devo essere costretto a cercarmi un contadino che alleva polli nella prateria, soprattutto quando a 2 km continuano a prosperare capannoni di polli in batteria.
Significa girarsi dall’altra parte
Sono tutte robe che è meglio non mangiare. Polli che crescono in 30 giorni, quando chiunque abbia mai allevato polli come si deve sa che minimo ci vogliono 3-4 mesi, ma direi almeno 5-6 mesi per un pollo decente.
Io preferisco evitarli questi polli industriali.
Sinceramente non capisco perché abbinare la tematica della “precaria biosicurezza” dell’allevamento intensivo del pollo con il fipronil legato alle ovaiole, inoltre i campioni riscontrati positivi erano di pollo o di galline? (il piano era volto al monitoraggio delle ovaiole…).
In fine, caro Andrea, meglio acquistare dal contadino non sapendo cosa contiene il pollo o il solito pollo del supermercato sottoposto agli adeguati controlli? (motivo per il quale siamo a conoscenza di queste problematiche?).
Anche mia nonna (contadina) allevava polli e conigli apprezzati dal vicinato, di assicuro erano rustici e privi di controlli sanitari (es. salmonelle) e in 2 -3 mesi erano pronti ma con peso di oltre 3kg. E il benessere animale? Parliamone
Ognuno faccia le proprie scelte
Schierarsi senza spirito critico, o all’opposto con la negazione dei problemi non ci porta a nulla.
Ogni metodo produttivo va ottimizzato ed adattato alle esigenze primarie del consumatore e nel caso degli allevamenti anche al trattamento degli animali.
Accettare situazioni dove virus come quello dell’aviaria si diffonde a macchia d’olio negli allevamenti intensivi, è accettare strutture e prassi produttive inadeguate e controproducenti per i produttori stessi che ne subiscono prima o poi le conseguenze.
Copiare metodi cinesi per esportare polli in tutto il mondo non è condivisibile ne strategico.
Opporre il ruspante ormai inesistente (ma che non ha mai generato epidemie ne intossicazioni su scala continentale come il fipronil), alla batteria è discutere a vuoto, ma cercare soluzioni accettabili sia per i polli/galline sia per i consumatori, non solo è cosa buona e giusta, ma un obbligo strategico per ogni produttore lungimirante.
Non ci sono due categorie di interessi contrapposti, ma un’unica filiera propositiva in sintonia con le necessità e le scelte dei clienti consumatori, compreso il massimo rispetto nel trattamento degli animali.
Davvero questo articolo è un’accozzaglia di informazioni messe insieme senza molto senso.
Qual è l’associazione tra Fipronil e superamento delle biosicurezze? Il fipronil è stato utilizzato volontariamente in alcuni allevamenti e nulla ha a che vedere con il problema del passaggio di agenti patogeni tra un allevamento e l’altro (come ad es. l’influenza di cui si parla nella prima parte dell’articolo).
Dice “Le grandi industrie alimentari italiane hanno spinto per costruire i capannoni degli allevamenti dove si trovavano i loro impianti di macellazione, per esigenze logistiche”. Oppure al contrario gli impianti di macellazione sono nati dove c’erano gli allevamenti. Be’ è ovvio. Il trasporto, oltre che un costo, può anche essere fonte di diffusione di malattie, oltre che un problema per il benessere. Questo vale per i polli, ma anche per tutte le altre specie…
Faccio anche notare che l’EFSA non tutela per niente il benessere. Semmai l’EFSA emette pareri e opinioni, mentre il benessere è tutelato dai Servizi veterinari.
Ma alla fine non ho capito bene dove vuole arrivare l’articolo. Compriamo tutti dal contadino?? Come gestiamo i 525 mln di capi macellati in Italia ogni anno? Quanti contadini (e quanti allevamenti) dovremmo avere? A che distanza uno dall’altro? Con che problemi di biosicurezza? Riusciamo a soddisfare le richieste di tutti?
Pur condividendo l’approccio non confusionale per cause e motivazioni diverse da affrontare nel merito, non condivido l’ovvia accettazione della situazione contingente, negativa in primis per i produttori stessi che subiscono i danni autoprodotti.
Se dislocare la macellazione dai siti di allevamento, può essere un leggero aggravio pro-capo allevato, dover abbattere milioni di capi, non solo è molto più oneroso, ma interrompe la continuità del fatturato e la liquidità aziendale, causando anche fallimenti conseguenti.
Lasciando sullo sfondo l’etica ed il rispetto animale di qualsiasi genere, le migliori prassi produttive note a tutti, sono egoisticamente coincidenti sia con gli interessi del produttore, sia del consumatore, ma anche per un animale allevato sostanzialmente più sano e meno medicalizzato.
Non è paragonabile l’efficienza dell’allevamento industriale con quello tradizionale. Il primo assicura derrate più sicure ed accessibili a molte più persone. Il vero problema dell’allevamento avicolo intensivo è, a mio avviso, l’eccessiva densità ammessa: 36 kg di peso vivo pollo per metro quadro vuol dire 18 polli in un metro. Ci vuole della fantasia per definire questa una condizione di benessere animale. Si potrebbe dimezzare: ne guadagna il pollo, la sua salute, la salubrità delle carni. Certo, il prezzo raddoppierebbe. E la gente avrebbe meno soldi da investire in cellulari di ultima generazione. Siamo disponibili a questo cambio di modello di vita?
sottoscrivo al 100%
Concordo con l’osservazione, ma sono meno pessimista sui costi raddoppiati per l’aumento di spazio dedicato agli animali allevati.
Lo spazio è un investimento iniziale da diluire su tutti gli animali allevati per tutta la vita dell’allevamento e va ripartito come costo fisso molto diluito in molti anni d’ammortamento, mentre non ci sarebbe aumento di costi vivi d’esercizio, che sono quelli che determinano il vero prezzo del prodotto.
La miglior qualità della vita animale si traduce sicuramente in una diminuzione degli abbattimenti per malattie, oltre ad una riduzione significativa dei farmaci impiegati.
Non sempre investire meglio produce maggiori costi, spesso è vero il contrario.