Pinsa condita con pomodoro, mozzarella, basilico e capperi su un tagliere di legno

È comparsa una ventina di anni fa tra le parole che definiscono le ricette del mangiare di strada, gli aperitivi e i momenti conviviali. In un primo momento poteva sembrare che si trattasse della ‘pizza’ scritta in una maniera strana o addirittura storpiata e, a vederla, sembrava effettivamente una sorta di pizza con la forma allungata. Poi la ‘pinsa’ è entrata nel gergo comune e si sono moltiplicati i locali che la servono, le cosiddette ‘pinserie’. Inoltre, si è sviluppata anche nei supermercati un’offerta piuttosto ampia di pinse parzialmente cotte da passare in forno e da farcire a piacimento.

Cos’è la pinsa?

Cos’è, quindi, questo prodotto che sta riscuotendo tanto successo? Si tratta di una ricetta nuova o di un modo per svecchiare la pizza, conferendole un’allure innovativa e modaiola? I produttori di basi per pinsa e di mix di farine ad hoc sono concordi nel valorizzarne le caratteristiche distintive. Si tratterebbe, infatti, di un alimento più digeribile della pizza tradizionale, croccante fuori e morbido dentro. In molti, poi, ne dichiarano le origini antiche, come per volerlo nobilitare, ma in realtà di pinsa, prima degli anni 2000, non se ne era sentito mai parlare. Le focacce dell’antica Roma, a cui questo prodotto viene spesso ricondotto, possono essere ugualmente le antenate della pizza e, soprattutto, delle focacce allungate che si trovano in molte panetterie.

Pizza romana con pomodoro mozzarella e basilico
La differenza tra una pinsa e una pizza alla pala romana sta principalmente nelle farine utilizzate

Corrado Di Marco, un imprenditore romano attivo nel settore delle farine e impegnato nella ricerca di un mix con le migliori caratteristiche nutrizionali, ha coniato il termine ‘pinsa’ nel 2001. In quell’anno Di Marco registra il marchio ‘pinsa’, poi decaduto per volgarizzazione nel 2015, a causa cioè del fatto che è diventato una denominazione generica. Oggi quindi non esiste una definizione commerciale distintiva di questo prodotto ed è possibile trovare in commercio pinse del tutto simili alla pizza, dalla quale si differenziano principalmente, se non esclusivamente, per la forma. È però operativa un’associazione, fondata dallo stesso Di Marco nel 2016, che ha fissato un disciplinare e un logo per definire e distinguere l’‘Originale pinsa romana’ da altri prodotti con caratteristiche varie. 

Pinsa contro pizza

Gli aspetti distintivi riguardano in primo luogo la farina utilizzata: un mix composto da una parte principale di farina di frumento, con l’aggiunta di farina di riso e di una piccola quantità di farina di soia. L’altro elemento distintivo è il lievito, che deve essere di pasta madre. Per quanto riguarda infine le modalità di preparazione, l’Originale pinsa romana deve essere impastata con una quantità d’acqua superiore all’80% (per la pizza solitamente è intorno al 60%) e poi lievitare da un minimo di 24 fino a 72 ore. La forma, infine, viene data a mano. Oggi, l’associazione per la tutela dell’Originale pinsa romana si occupa di ‘certificare’ con il suo logo i locali che offrono un prodotto in grado di soddisfare queste prerogative (ci sono attualmente circa 7.000 pinserie certificate in tutto il mondo).

Non è chiaro se tale certificazione da parte dell’associazione avvenga solo a patto che la pinsa in questione sia effettivamente preparata con gli ingredienti forniti dall’azienda Di Mauro. Tutto questo, comunque, non significa che una pinsa buona e digeribile debba essere necessariamente realizzata con il mix di farine dell’azienda del suo ideatore, le cui caratteristiche precise sono tuttora un segreto. In rete si trovano le indicazioni per chi vuole cimentarsi nella preparazione domestica partendo da farine monoingrediente e, visto il grande successo ottenuto, sono molte le imprese che propongono questo alimento con l’intenzione di offrire un prodotto di qualità, effettivamente diverso dalla pizza tradizionale. È vero però anche che la pizza stessa può essere preparata con differenti mix di farine e modalità di lievitazione ed essere quindi più o meno digeribile e gradevole al palato. La qualità, come spesso accade, non è solo una questione di denominazione.

© Riproduzione riservata Foto: Depositphotos

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Silvia B
Silvia B
14 Marzo 2024 13:54

In pratica la possiamo considerare un’operazione di marketing ed a vedere dall’aumento dell’offerta che si è avuto negli ultimi mesi sembrerebbe ben riuscito; l’importante è che non si perda la qualità delle materie prime

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