Nelle acque degli Stati Uniti sono presenti quasi 42 mila potenziali fonti di sostanze poli e perfluoroalchiliche (Pfas), composti chimici permanenti molto dannosi per la salute umana, che si accumulano nell’organismo e non si dissolvono nell’ambiente. La stima, impressionante, arriva dall’ultimo studio dell’Environmental Working Group, l’associazione ambientalista che da anni conduce ricerche sul tema e ha appena pubblicato un rapporto su ciò che si trova nelle acque di superficie o nell’acqua potabile degli Stati Uniti. Per la loro quantificazione, gli esperti dell’Ewg sono partiti da un grande database dell’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente e hanno analizzato potenziali fonti di contaminazione da Pfas nelle forniture d’acqua potabile a livello nazionale. Le strutture che più spesso sono apparse come fonti possibili erano discariche di rifiuti solidi, impianti di trattamento delle acque reflue, impianti per la lavorazione dei metalli e raffinerie di petrolio. Poi hanno incrociato questi dati con quelli di indagini su campioni di acqua del rubinetto condotte lo scorso marzo, che avevano rivelato nelle acque del nord Virginia valori nettamente più alti di quelli precedentemente rilevati nell’area metropolitana di Washington DC. Inoltre, hanno preso in considerazione studi di casi relativi agli stati della California e del Michigan, che mostravano ampie contaminazioni in numerose aree, al punto da essere spesso al di sopra dei limiti di legge. L’analisi, con l’ultima ricerca Pfas, è stata pubblicata su un numero speciale della rivista Awwa Water Science.
L’insieme dei dati rafforza le richieste dell’Ewg, che da anni chiede il bando degli Pfas più pericolosi e di tutti quelli non insostituibili e l’impiego di filtri specifici negli acquedotti. Inoltre, sostiene il gruppo ambientalista, bisogna intensificare e rendere regolari i controlli perché, quando ve ne sono, i livelli diminuiscono e perché l’indagine ha fatto venire alla luce centinaia di composti sconosciuti, o quasi, il cui ruolo è ancora da studiare. La guerra ai Pfas è comunque solo all’inizio: presenti virtualmente in ogni essere umano, compresi i neonati e gli abitanti delle zone più remote del pianeta, sono stati associati, anche in quantità molto piccole, a danni al sistema immunitario, a un aumento del rischio di varie forme di cancro, a squilibri dell’apparato riproduttivo, del colesterolo e a molteplici altri effetti nocivi. Ma sono appunti ubiquitari e indispensabili per certe lavorazioni. L’Ewg chiede, come primo passo, la chiusura di alcuni scarichi inquinanti, in secondo luogo ritiene debba essere definito, da parte dell’Ente per la protezione ambientale, un limite di legge per le emissioni industriali in acqua. In seguito si dovrà anche provvedere alla decontaminazione di acque e terreni.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, se e quando diventerà realtà, si potrà forse contare su un metodo di decontaminazione delle acque potabili per ora sperimentale, ma molto promettente, messo a punto da un’équipe di ricercatori danesi. Come riferito sul Journal of the American Chemical Society, infatti, esiste un composto (chiamato Diiron non-heme) contenente ferro che, a contatto con l’acqua contaminata da sostanze che contengono carbonio (e quindi anche Pfas) e il cloruro sempre presente, riesce a ridurre farmaci, ormoni e contaminanti di vario tipo a due soli elementi, la CO2 e il cloruro di sodio, cioè a un’acqua salata e frizzante. Per ora il procedimento è costoso e non applicabile su ampia scala e il composto non è riciclabile, quindi occorrerà del tempo prima che si possa applicare. Ciò che conta, però, in casi come questo, è essere giunti a una soluzione che libera l’acqua dalle sostanze potenzialmente pericolose, senza produrne altre.
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Giornalista scientifica