
Le sostanze perfluoro alchiliche o PFAS, chiamate anche contaminanti perenni, stanno seguendo le orme dei materiali nei quali sono più utilizzati: le plastiche. Come queste ultime, infatti, si trovano quasi sempre, quando li si cerca. Ma, per fortuna, l’intensa attività di ricerca degli ultimi anni, finalizzata alla filtrazione degli PFAS dalle acque e al trattamento sostenibile dei composti solidi che li contengono, sta facendo passi in avanti significativi, al punto che si spera di poter presto dimenticare quell’aggettivo sinistro: “perenni”.
PFAS nella polvere
I ricercatori dell’Università del North Carolina di Raleigh hanno pubblicato nei giorni scorsi su Environmental Science & Technology uno degli ultimi studi che ne certifica la pervasività, e riguarda un materiale finora poco considerato: la polvere domestica. In particolare, la ricerca è nata da uno studio di popolazione chiamato GenX Exposure Study, nel quale si sta monitorando la situazione di due contee (Cumberland e Bladen) vicine a un grande stabilimento di produzione di composti fluorurati tra i quali gli PFAS e il GenX, considerato meno tossico al momento della sua introduzione, nel 2005, ma oggi ritenuto pericoloso quanto gli altri. Per controllare la polvere domestica, gli autori hanno prelevato campioni da 65 abitazioni che si trovavano entro un raggio di circa nove chilometri dall’impianto, e hanno verificato la presenza di ben 48 composti.
Tra questi, 12 erano PFAS specificamente associati alla fabbrica (e infatti la loro presenza è stata rilevata anche nell’acqua potabile e nel sangue – in particolare nel siero – degli abitanti della zona), e altri erano PFAS a catena corta, molto usati nei sistemi refrigeranti.
Il risultato è stato inquietante: ogni singolo campione conteneva almeno uno PFAS e il 90% ne aveva uno o più non necessariamente riconducibili alle lavorazioni industriali. Dei 12 certamente legati allo stabilimento, sei sono stati trovati nel 75% delle case, mentre GenX era presente nell’89% dei campioni. Una percentuale identica (89%) di polveri, poi, presentava l’acido trifluoroacetico o TFA, il più comune tra gli PFAS a catena corta, e anche quello la cui concentrazione media è risultata più elevata, rispetto a tutti quelli esaminati.
Secondo gli autori, la polvere deve essere considerata come probabile fonte di PFAS anche quando non c’è uno stabilimento industriale nelle vicinanze, ed evitata, per quanto possibile.

Assenti nelle acque italiane
Un po’ più rassicuranti sono stati, invece, i risultati di un’indagine compiuta da Altroconsumo sulle acque delle fontanelle di 35 città: gli PFAS erano assenti.
Oltre alle acque, Altroconsumo ha preso parte a un’indagine internazionale sull’abbigliamento outdor e su altri materiali tessili quali tovaglie, presine, cuscini idrorepellenti, e poi altri prodotti come filo interdentale, assorbenti, cerotti per sportivi e molto altro ancora: su 229 prodotti testati, circa il 30% conteneva PFAS in generale, e il 20% PFAS già vietati o in concentrazioni al di sopra dei limiti che entreranno in vigore nel 2026. Tra i 59 prodotti acquistati in Italia, la percentuale generale è risultata del 24%, e dieci prodotti avevano concentrazioni che, dall’anno prossimo, non saranno più legali.
Un po’ meno perenni?
La notizia davvero buona, però, è probabilmente quella che arriva dalle pagine di Nature, dove i chimici dell’Università di Oxford, in Gran Bretagna, hanno presentato un metodo semplice che permette di recuperare il fluoro dagli PFAS, con un doppio beneficio: per l’ambiente, visto che ciò che resta dopo si può trattare molto più facilmente, e per la sostenibilità, perché il fluoro, usatissimo, nel mondo è sempre più raro, al punto da essere inserito tra i materiali critici.
La scoperta del nuovo metodo è stata fatta per caso: i ricercatori hanno notato che, quando utilizzavano uno strumento meccanico basato sulla macinazione con sfere metalliche, le guarnizioni contenenti PFAS si degradavano. Per questo hanno verificato se, unendo le sferette con il fosfato di potassio (senza solvente) si potesse ottenere una degradazione ancora più spinta, e così è stato. La semplice azione meccanica unita alla forza del sale di potassio riesce a scindere il legame tra carbonio e fluoro. Il metodo meccanochimico può quindi essere utilizzato per separare il fluoro dagli PFAS, e avviarlo a un nuovo utilizzo anche per produzioni pregiate come quelle dei farmaci o dei prodotti agricoli. Anche il fosfato di potassio può essere recuperato e riutilizzato.
Up-cycling
Lo stesso principio, quello dell’up-cycling, è stato alla base anche di un secondo studio, questa volta pubblicato su Nature Water dai ricercatori della Rice University di Houston, Texas, e applicato agli PFAS contenuti nell’acqua. Il materiale di partenza in questo caso è il carbone attivo saturo di PFAS che si ottiene dai filtri per acqua. Se lo si sottopone a un’alta tensione che lo porta a 3.000 °C per un secondo e si aggiungono sali che lo mineralizzano come quelli di sodio, si ottengono derivati inerti con fluoro, e grafene, materiale molto pregiato che può essere riutilizzato. La defluorazione è del 96% e la rimozione dello PFOA dal carbone del 99%.
I segnali vanno dunque nella direzione di nuove soluzioni che forse permetteranno in un futuro non lontano, di contrastare più efficacemente la contaminazione da PFAS, ormai ubiquitaria.
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Giornalista scientifica
fortuna che esistono dei centri di ricerca impegnati nella soluzione di questi gravi problemi di inquinamento. speriamo bene…