I consumatori europei preferiscono il pesce pescato a quello allevato, ma forse è perché non conoscono a sufficienza la realtà delle acquacolture convenzionali e di quelle biologiche, che però rappresentano una quota minoritaria del mercato. È auspicabile in futuro una maggiore fiducia, soprattutto se le persone saranno aiutate a conoscere meglio le caratteristiche del pesce cresciuto in condizioni controllate. In ogni caso mangiare pesce a casa e fuori casa in modo consapevolmente potrebbe essere una buona base per migliorare le abitudini alimentari.
Per capire meglio cosa pensano gli italiani del pesce, dove preferiscono mangiarlo e cosa ne sanno veramente i ricercatori del CREA hanno intrapreso da anni un monitoraggio in tutta la filiera. Di recente, grazie alla collaborazione con Esselunga, Federconsumatori, Adiconsum e Movimento Consumatori, hanno sottoposto un campione significativo di persone, più di 8.600, a una serie di domande sul tema. Il risultato è uno studio appena pubblicato sul Journal of Aquatic Food Product Technology che dipinge un quadro non del tutto scontato. Le risposte, raccolte prima dell’arrivo del Covid-19, mostrano che il 75% delle famiglie compra meno di 2 chilogrammi di pesce allevato al mese, spendendo tra i 20 e i 50 euro.
Va anche peggio con il pesce allevato biologico, che il 40% degli intervistati non ha mai consumato a causa del prezzo, o perché non lo trova nelle rivendite o ne sa troppo poco. La predisposizione è però positiva. Metà dei consumatori sarebbe disposta a pagare qualcosa in più se avesse certezze sull’assenza di antibiotici che in realtà non sono presenti, sulla sostenibilità e sull’origine che è riportata in etichetta, ma spesso non viene letta. C’è quindi molto lavoro da fare per fornire le informazioni necessarie, e per migliorare anche la distribuzione, soprattutto dei prodotti biologici.
Per quanto riguarda le abitudini, gli italiani preferivano mangiare i prodotti dell’acquacoltura a casa (73%), ma almeno una volta al mese più di un quarto degli intervistati li consumavano in ristoranti tradizionali (46%) e asiatici di sushi (25%) o in taverne (32%).
Questa la situazione prima del lockdown, che sta causando grandi criticità, come emerge dai contatti del gruppo di studio con gli allevatori italiani. Se la filiera dei supermercati non si è mai interrotta, quello della ristorazione in ogni sua articolazione, dalle mense aziendali ai ristoranti è in una crisi di cui non si vede la fine. Spiega Fabrizio Capoccioni, del Centro di ricerca zootecnia e acquacoltura del Crea, coordinatore dello studio: “I costi stanno lievitando, per gli allevatori, perché una parte significativa del pesce non può giungere a destinazione e deve essere tenuto in vita e nutrito ben al di là dei cicli programmati. Lo stesso vale per i molluschi, che non sono alimentati, ma le cui colture vanno manutenute, per evitare danni alle strutture a volte irreparabili”.
Il settore dell’acquacoltura, prosegue Capoccioni, è un’eccellenza italiana, e come tale va tutelato, e preparato per il futuro. “Pur restando sempre nell’ambito dei regolamenti europei” spiega infatti il ricercatore “l’Italia ha scelto di puntare su allevamenti lontani dalle coste, dove l’impatto ambientale è molto più basso, e su gabbie di grandi dimensioni, dove il pesce ha più spazio a disposizione. Ciò spiega perché gli antibiotici siano quasi scomparsi e perché vengano somministrati solo gli antiparassitari indispensabili, sempre e solo almeno tre mesi prima della pesca. Per quanto riguarda il pesce biologico, poi, tutta la filiera è ancora più controllata, e i mangimi sono di qualità superiore, vegetali biologici o provenienti da pesce pescato. Il risultato è un prodotto di qualità ottima, superiore a quello di altri paesi, con elevato tenore di omega tre. Se si vuole mantenere tali livelli bisogna che il mercato regga. In attesa della riapertura dei ristoranti, i consumatori devono essere informati meglio, sapere che la qualità assicurata dal pesce allevato in Italia è ottimo e continuare ad acquistarlo con fiducia”.
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Giornalista scientifica
Dall’ultima inchiesta di Report sembra proprio l’esatto contrario. Allevamenti in mare aperto dove pesci si ammalano , basta guardare il filmato
https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Muto-come-un-pesce-51fb7dd2-e0df-47be-96bc-1ec5c6298bde.html
saluti
delta
Gent.le Sig. Delta,
ho anche io ho visto il servizio di Report. Nel giornalismo d’inchiesta ciò che si mostra è sempre l’eccezione e mai la regola, altrimenti nessuno rimarrebbe incollato alla televisione.
L’acquacoltura, come tutti i metodi di allevamento, prevede per definizione di confinare animali in uno spazio più ristretto rispetto alle condizioni naturali. Questo può determinare l’insorgenza di malattie. Succede anche all’uomo e questi mesi ne sono la dimostrazione lampante.
Quello che posso assicurarle è che da ricercatore (sono un biologo) raccolgo, studio, elaboro e interpreto i dati scientifici. Questi ci dicono che l’acquacoltura italiana non solo è fra le più attente alle condizioni di benessere degli animali, ma anche quella più attenta all’impatto sull’ambiente e alla qualità finale del prodotto che andrà a mangiare.
In più le leggi italiane, che vengono fatte rispettare da diversi enti pubblici negli impianti (ASL, NAs, ecc.), sono in molti casi ancora più restrittive di quelle europee. Ad ogni modo aspetti quali la densità di allevamento, l’utilizzo (molto raro) nei tempi e nei modi di mangimi medicati, i metodi di cattura, sono rigidamente definiti da innumerevoli norme e, nella stragrande maggioranza dei casi, rispettate. Tali aspetti sono addirittura richiesti nei contratti privati di fornitura della grande distribuzione con le aziende di acquacoltura.
In tutto questo quadro si inserisce il lavoro della ricerca scientifica pubblica che ha l’obiettivo di migliorare sempre di più le tecniche di allevamento, i mangimi, la sostenibilità ambientale con il fine ultimo di produrre cibo (in questo caso specifico pesci crostacei e mollluschi) di elevata qualità nel rispetto del benessere animale. Due aspetti legati indissolubilmente.
Distinti saluti
Fabrizio Capoccioni
Ricercatore CREA Centro di Zootecnia e Acquacoltura
Come tutti possono immaginare si fa presto a dire sfiducia o non-conoscenza di un argomento ma questo comportamento difettoso si può combattere soltanto con maggiori informazioni , non solo statistiche o numeri grezzi , ma di livello qualitativo chiaro.
Per fare un esempio qual è la densità di allevamento in mare aperto per le più diffuse specie di pesci? Qual è la frequenza di interventi con mangimi medicati in una determinata zona geografica e quanti animali vengono coinvolti? A proposito di zone geografiche poi come si conciliano le notizie sull’inquinamento delle acque marine che sovente vengono riportate e lo stato di salute del pescato?
E’ interesse collettivo che le leggi vengano rispettate perché anche se gli allevamenti in mare aperto sono lontano dagli occhi però qualche effetto lo producono e quindi sono ben accetti gli studi assidui e i miglioramenti sono sempre auspicabili ma non si deve trattare solo di autocertificazioni , diffondete i dati e dateci la possibilità di conoscere la normalità.
Tutto vero e ok ma qualcuno mi spiega perché tra un branzino allevato e uno pescato il pescato è più buono e riconoscibile al confronto?
Grazie
Interessante, non ho mai potuto fare un confronto diretto… Sentiamo se qualcuno ha un parere diverso.
Benissimo, grazie per le informazioni: quando capita noi compriamo senza problemi il pesce allevato. I suoi chiarimenti sono utilissimi.
Il Sig. Fabrizio Capoccioni Ricercatore CREA in questa risposta :”L’acquacoltura, come tutti i metodi di allevamento, prevede per definizione di confinare animali in uno spazio più ristretto rispetto alle condizioni naturali. Questo può determinare l’insorgenza di malattie.
Succede anche all’uomo e questi mesi ne sono la dimostrazione lampante”, asserisce che in questi tre mesi di distanziamento tra le persone per preservare la nostra salute è stato dimostrato che ha portato all’insorgenza di malattie anche all’uomo !! Mi sembra una affermazione del tutto aberrante. Sarebbe meglio prima di fare certe affermazioni cercare di ragionare correttamente. Come ha fatto si può dire tutto di tutto.
Il Signor Gianni ha perfettamente ragione quando afferma che le informazioni sugli alimenti devono essere chiari e fruibili per il consumatore. Il sistema dell’etichettatura e la certificazione sono strategie determinanti in questo senso.
Le leggi europee (seguite dalla normativa nazionale) impongono valori limite per i principali e più pericolosi contaminanti per molti alimenti e anche specificatamente per il pesce che esso sia allevato o pescato. Tali controlli vengono effettuati chiaramente a campione dalle autorità competenti e se il prodotto non risulta conforme viene ritirato dal commercio. Mentre per il pesce pescato è difficile stabilire le acque in cui è vissuto e ha nuotato prima di essere catturato (è cresciuto davanti alla foce del Tevere oppure davanti al promontorio del Parco Nazionale del Circeo?), il pesce allevato è cresciuto sempre nello stesso allevamento ed ha mangiato sempre mangimi che subiscono controlli di qualità costanti sia interni delle aziende mangimistiche che quelli previsti per legge. Da biologo posso senz’altro affermare che i principali inquinanti vengono eventualmente “trasmessi” e accumulati nei tessuti dagli animali attraverso ciò che mangiano e in maniera assai più limitata dall’acqua in cui nuotano. Sul sapore, per rispondere al Signor Dionigi Angeli, è una caratteristica soggettiva a cui non posso rispondere in maniera scientifica.
Tipologie di informazioni quali la densità di allevamento o il numero di animali allevati (a parte negli allevamenti biologici che hanno limiti precisi per specie) non sono stabilite per legge, ma dipendono delle scelte delle singole aziende. Il mio consiglio è di chiedere sempre l’azienda di provenienza in pescheria o al supermercato. Tutte le aziende italiane hanno siti internet nei quali sono riportate molte informazioni, tra cui i siti delle gabbie.
Proprio i siti scelti per l’allevamento vengono autorizzati solo dopo innumerevoli studi che devono accertare l’idoneità del sito produttivo, la qualità delle acque e l’eventuale impatto ambientale. Tali analisi vengono poi ripetute negli anni per verificare eventuali variazioni nelle condizioni ambientali.
Posso segnalare dei link dove approfondire molte delle tematiche sollevate che meriterebbero molto più di un post per essere affrontate con rigore basandosi su informazioni corrette.
Fabrizio Capoccioni – CREA
Regolamento Europeo che definisce i tenori massimi di alcuni contaminanti nei prodotti alimentari: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A32006R1881
Progetto ISS sulla qualità del pesce nazionale: http://old.iss.it/pbts/?lang=1&id=97&tipo=4 -http://old.iss.it/binary/fisr/cont/schede_chim.tossicologiche.pdf
Progetti CREA su Acquacoltura sostenibile: http://www.acquacolturabio.eu/BioBreed/HOME.html
Credo proprio che sia lei a non aver capito l’affermazione del Sig. Capoccioni: la situazione attuale è l’effetto, non la causa.
forse la mancanza di fiducia non riguarda sempre direttamente la qualità del pescato, ma magari le condizioni in cui questi animali sono costretti a vivere (che poi con questa è comunque in relazione); mi piace credere che sempre più persone siano sensibili alle condizioni di vita degli animali (che non sono un mero assemblaggio di dati scientifici)