Grano e pasta 100% italiani garantiscono la qualità? Secondo l’esperto la formula non sempre funziona. Lo spiega l’esperto Raimondo Cubadda
Grano e pasta 100% italiani garantiscono la qualità? Secondo l’esperto la formula non sempre funziona. Lo spiega l’esperto Raimondo Cubadda
Redazione 21 Marzo 2018“La qualità rappresenta un’esigenza fondamentale per ogni prodotto destinato alla trasformazione industriale”. Comincia così un articolo sul grano e la pasta italiana pubblicato sul sito AgriCulture della FIDAF (Federazione Italiana dei Dottori in Scienze Agrarie e Scienze Forestali), firmato da Raimondo Cubadda già docente di Tecnologie Alimentari all’Università del Molise, che descrive con lucidità e chiarezza la situazione nei nostri campi e nei nostri pastifici. L’analisi descrive una realtà diversa da quella proposta da Coldiretti, sposata dal Ministero delle politiche agricole e ripresa da quasi tutti i media nazionali. Di seguito ne riassumiamo le parti più salienti.
L’espressione qualità tecnologica del grano duro comprende sia gli elementi che incidono sul valore molitorio (resa in semola) sia le caratteristiche connesse al valore pastificante (proprietà della pasta). I fattori che concorrono a determinare il valore molitorio sono quasi completamente dipendenti dalle condizioni ambientali e di raccolta mentre la qualità pastificante è legata al genotipo ovvero al patrimonio ereditario della varietà sul quale però agiscono (spesso in maniera determinante) l’ambiente di coltivazione (tecnologie agricole di coltivazione e terreno) e l’andamento climatico.
Gli studi antecedenti agli anni ’70 hanno messo in evidenza che le proteine, e in particolare quelle di riserva (glutine), sono un componente strutturale essenziale della pasta e che il tipo di glutine ha un effetto sulla qualità di cottura superiore anche alla quantità dello stesso. Sulla base di questo risultato la forza del glutine è stato il criterio che ha guidato il miglioramento genetico.
A partire dagli anni ‘70 la produzione della pasta subisce una vera e propria rivoluzione con l’introduzione di nuove tecniche di essiccamento basate sulle alte temperature. Questa innovazione comporta l’impiego di nuovi impianti che permettono l’uso di alte temperature di essiccamento e la riduzione dei tempi di lavorazione. Il processo industriale comporta profonde modifiche alla pasta con conseguente forte denaturazione delle proteine, favorendo così la formazione di una rete capace di impedire che i granuli di amido escano durante la cottura migliorando la consistenza ed evitando la collosità.
Uno studio effettuato diversi anni or sono (Cubadda, 1996) utilizzando 40 semole, aventi un ampio spettro nella qualità e quantità delle proteine, pastificate con cicli d’essiccamento a bassa (45°C) ed ad alta (80°C) temperatura, evidenzia che il 52% della variabilità della qualità di cottura è dovuta all’interazione quantità delle proteine/temperatura d’essiccamento quando viene usata la temperatura alta di 80°C mentre tale valore scende al 34% della variabilità nel caso della bassa temperatura di 45°C.
Una ricerca effettuata nel 2007 su una serie di campioni semola a contenuto proteico crescente (10,5; 11.5; 12,5; 13,5; 14,5 s.s.), pastificate a bassa, media e alta temperatura (rispettivamente a 50° C, 70°C e 85°C con una punta di 90°C per 30 minuti) ha messo in evidenza che con l’alta temperatura migliora la qualità di cottura anche nella pasta con glutine debole. Nel caso di una pasta preparata con semola forte e buon tenore proteico però non è necessario forzare la temperatura per garantire la buona qualità. In altre parole alzare la temperatura durante la fase di essiccazione sino a 85/90°C (nei casi estremi) permette alla pasta ottenuta con grano non eccellente di tenere bene la cottura. Chi invece usa semola di qualità ottiene lo stesso risultato a temperature inferiori da qui la famosa frase “a lenta essiccazione” riportata sulle etichette. A questo punto è necessario focalizzare l’attenzione sulla qualità del grano duro nazionale.
I numerosi dati sperimentali indicano in maniera inequivocabile che nelle zone meridionali, il tenore in proteine è piuttosto mediocre e in certe stagioni avverse talvolta scadente. La situazione è nota da tempo, tanto che anche quando il nostro Paese era autosufficiente si faceva ricorso alle cosiddette “importazioni tecniche” di grano duro e tenero miscelando il prodotto nazionale con quello importato per correggerne i difetti qualitativi. Uno dei pochi studi effettuato sulla qualità dei grani duri portati allo stoccaggio, realizzato nell’ambito del Progetto Qualità e Tracciabilità del Grano Duro in Sicilia, ha messo in evidenza che analisi condotte su 37475 partite nel periodo 2001-2004, il tenore in proteine oscillava dal 11,0% al 13,2% (Cartabellotta et al). Solo in due annate il grano duro siciliano aveva un tenore proteico appena accettabile. Se si considera poi che nel processo di lavorazione si perde almeno l’1% di proteine, si può dire che la produzione siciliana del 2004 (11,0%) e probabilmente quella del 2002 (11,5%) non consentirebbero di raggiungere nella semola il valore minimo di 10,5%. richiesto dalla legge e quindi non potrebbero essere commercializzate da sole nella fabbricazione della pasta. Lo sforzo nel miglioramento genetico attuato negli ultimi anni ha portato a qualche risultato positivo e alla formazione di filiere, ma il problema fondamentalmente resta irrisolto.
I fattori che interagiscono negativamente sul contenuto in proteine del grano duro nazionale, in particolare su quello delle regioni meridionali, sono:
– la brevità del ciclo che va dalla spigatura alla maturazione fisiologica della cariosside che spesso a causa dei venti caldi e dell’insufficiente umidità del suolo comporta un precoce essiccamento delle foglie con conseguente interruzione della funzione clorofilliana e pertanto dell’assorbimento di elementi nutritivi e accumulo delle proteine di riserva (gliadine e glutenine);
– l’impoverimento del suolo e lo sviluppo di patogeni a causa della pratica del ringrano
– la mancanza di una razionale rotazione delle colture;
– la scelta di cultivar inadeguate dal punto di vista qualitativo
– l’inadeguatezza delle tecnologie agronomiche, inclusa una razionale concimazione.
Occorre anche considerare che la mancanza di uno stoccaggio differenziato non permette di selezionare le partite di elevata qualità. Diversa è la situazione in Canada, tradizionale paese da cui importiamo grano duro, dove le partite commercializzate sono omogenee e tipizzate. Nonostante questa situazione la qualità organolettica della pasta italiana è migliorata a partire dagli anni ’70 raggiungendo un livello in generale buono con punte di eccellenza. Il miglioramento è collegato sia alla nuova tecnologia di produzione con alte temperature sia all’utilizzazione di grani duri importati ad elevato tenore proteico e buona qualità del glutine.
I problemi sono diversi e non verranno certo risolti con il decreto del 26 luglio 2017 “indicazioni dell’origine, in etichetta, del grano duro per paste di semola di grano duro” pubblicato sulla G.U. N. 191 del 17 agosto 2017. Il parere ricorrente è che il decreto non sposterà l’utilizzazione di un solo chicco di grano duro di qualità importato in favore del prodotto nazionale. Anche perché si dimentica di dire che, indipendentemente dalla qualità, l’importazione è indispensabile per sopperire alla carenza di grano duro nazionale insufficiente a coprire i consumi interni e l’esportazione del prodotto trasformato (pasta).
Invece di seguire vie traverse per proteggere la nostra produzione nazionale occorre investire in ricerca per ottenere nuove varietà e nuove tecnologie agronomiche in grado di consentire, anche in condizioni difficili, una produzione quali-quantitativa capace di soddisfare le esigenze dei produttori agricoli e dell’industria. I politici invocano spesso la ricerca ma hanno una speciale idiosincrasia a capirla e a finanziarla adeguatamente.
Per gli agricoltori meridionali non esiste un’alternativa valida in grado di sostituire il grano duro. Occorre un’attività di ricerca per trovare nuovi genotipi adatti all’ambiente meridionale, capaci di sfruttare al meglio i fertilizzanti per unità di prodotto e di richiedere pochi o affatto interventi fitosanitari. In questo modo si valorizzerebbe la nostra produzione riducendo le importazioni. Allo stesso tempo servono nuove tecnologie agronomiche e migliorare la fertilità dei suoli. A livello commerciale appare indispensabile adottare uno stoccaggio differenziato delle partite di grano in base alla qualità, come viene fatto in Paesi come: Canada, Stati Uniti, Australia. Sono queste le cose da fare. Rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine del grano sull’etichetta della pasta scrivendo se la materia prima proviene da “Paesi UE” o ” Paesi non UE” è un aspetto interessante ma di scarso valore perché non risolve il problema.
Raimondo Cubadda, articolo tratto dal sito AgriCulture
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Molto chiara e completa trattazione del non problema, già ampiamente risolto dai pastai italiani con le miscele di farine più adatte e la tecnologia produttiva dei nuovi impianti (cottura).
Chiarissima l’indicazione per la strategia colturale e di filiera delle produzioni italiane, per migliorare le nostre produzioni. Quindi l’opera degli agronomi più esperti è già tracciata e conosciuta da tempo, resta solamente realizzarla senza indugiare troppo in teorie, come si è fatto sino ad ora.
Altrettanto chiaro e condivisibile il ruolo delle istituzioni, che hanno il dovere di sostenere tutta la filiera, consumatori compresi e non solamente i produttori di pasta.
Ma in tutta questa trattazione coerente e condivisibile sulla qualità tecnologica della pasta, manca un cenno d’interesse anche per la finalità nutrizionale dell’alimento, che se perfetto nella tenuta alla cottura, non va dimenticato che alla fine del processo, l’alimento deve fare i conti con l’apparato digestivo umano non troppo resiliente ne standardizzato, come la tecnologia produttiva richiederebbe.
Ecco che tanta resistenza e strutturazione, non sempre si accorda con l’umana manipolazione gastrica successiva alla cottura, che se breve ne alza vantaggiosamente l’indice glicemico dell’alimento, ma ne allunga proporzionalmente e decisamente anche la digestione e l’acidità gastrica.
Personalmente sono riuscito a cuocere per 20′ (venti minuti) una pasta 100% italiana di grande marchio, con il risultato che era ancora molto al dente e da masticare bene per ben insalivarla (ptialina digestiva).
D’altronde i fili di ferro glutinosi piacciono quasi solo a noi italiani, anche per realizzare l’impiattamento estetico stile vecchio pagliaio rurale, perché in giro per il mondo solitamente la servono ben scotta.
…per concludere, ci vogliono convincere che il grano antico italiano sarebbe inferiore per qualità e meno digeribile per il consumatore. Bugia grossolana.